Cerchiamo un nuovo equilibrio tra uomo e terra madre. Parla Carlo Petrini

Il cibo è contemporaneamente carnefice e vittima della nostra salute. Parole che hanno il sapore amaro di una sentenza di difficile soluzione, tanto più se escono dalla bocca di Carlo Petrini fondatore e presidente di Slow Food, guru di quella gastronomia o ‹‹scienza del ventre›› come ci ricorda, a 360 gradi, dal formaggio delle langhe al fagiolo del villaggio sperduto del sud America. Uno che se ne intende, insomma, e che agricultura.it ha incontrato a San Rossore, ex tenuta presidenziale sul litorale pisano, in occasione della quinta edizione del meeting organizzato dalla Regione Toscana, che quest’anno ha affrontato il tema della salute come diritto universale.

Carlo Petrini, quale è il rapporto fra cibo e salute, chi ci rimette di più?
Siamo soggetti a una nuova pandemia dell’obesità. Mentre 2 miliardi di persone hanno problemi di obesità, altri 2 miliardi sono malnutrite. La situazione alimentare è insostenibile. Basti pensare invece, che il cibo che viene prodotto sarebbe sufficiente ad alimentare il doppio (12 miliardi) degli abitanti attuali della terra (6 miliardi e 400 milioni). Ma a causa degli enormi sperperi che avvengono tutto questo non accade.

Insomma, c’è da essere davvero preoccupati
Siamo ammalati perché il pianeta è profondamente ammalato. E la sua malattia è dovuta in gran parte al modo in cui oggi viene prodotto il cibo, stressando la terra madre, privandola di acqua e distruggendo le biodiversità.

Di chi sono le colpe?
Dell’uomo naturalmente. La visione industriale applicata all’agricoltura porta alla fine del pianeta. La situazione pare irreversibile, se continuiamo a produrre su criteri di iperproduttività, spesso monocolturale, togliendo fertilità alla terra. Questo tipo di economia è la sostanza che ammala il pianeta: nel rapporto sugli ecosistemi redatto recentemente da 1400 scienziati si ipotizza  che, di questo passo, fra 3-400 anni sarà distrutta la nostra specie.

In pratica, è l’ora di finirla con un colonialismo anche gastronomico da parte delle superpotenze dell’economia agricola e del cibo?
Esatto. E’ assurdo e ridicolo l’aver portato in Tanzania la baguette (riferendosi ai francesi, ndr) quando avevano già il loro fufu, oppure nei paesi colonizzati dagli inglesi la birra, convincendoli poi a mangiare quello che mangiamo noi. Basta  con le monocoltivazioni di cacao e caffè ad uso delle nostre commodities. E’ vergognoso aver depauperato la loro cultura gastronomica. Non si può far passare la logica americana secondo la quale basta produrre di più, incentivando le coltivazioni transgeniche e monocolturali. E’ necessario fin da subito un cambiamento di rotta, contrapponendo all’economia colonialista che non ha rispetto per il territorio le esperienze di un’economia di piccola scala, di sussistenza. L’Africa deve riscattarsi, rafforzare la biodiversità sul territorio, riappropiarsi della sua cultura e dei sui prodotti. Solo riequilibrando un giusto rapporto col cibo, si può aiutare il pianeta a guarire.

Cosa può fare un’associazione come Slow Food in questa direzione?
Continuare sulla strada già intrapresa, ovvero, mettere in rete le comunità del cibo di tutto il mondo. Quello che Slow Food sta facendo con Terra Madre, portando all’ultimo Salone del Gusto di Torino centinaia e centinaia di contadini di tutto il mondo, dalle Ande alle tribù africane, dall’Oriente all’Europa più svantaggiata. Solo le donne ci salveranno, alla base della natura, che sono in grado di fare miracoli con i frutti poveri della terra. Tutto questo proprio quando il cibo non è mai stato così diffuso ed a basso prezzo (e così mal distribuito), e mentre negli tati Uniti l’apporto calorico delle bevande gassose è triplicato è dimezzato l’apporto fornito dal latte.

Lorenzo Benocci

Nella foto Carlo Petrini

 

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