Un tegame di chiocciole, cucinate secondo le ricette della tradizione popolare, era un piatto povero ma estremamente gustoso. In Puglia, come in Sicilia o in Toscana, si trovano vecchie ricette in grado di esaltare le chiocciole. Poi una legge mise il divieto per la raccolta “spontanea” ed ecco, in poco più di trent’anni nascere una vera e propria economia, che interessa circa 10mila allevatori e 7mila ettari. E dal 1984 l’elicicoltura si può considerare attività agricola. Agricultura.it ha incontrato “l’inventore” dell’elicicoltura italiana e presidente dell’Istituto nazionale di Cherasco, Gianni Avagnina (in multimedia l’intervista audio).
Cos’è l’elicicoltura – Andando alla scoperta di questa particolare porzione del mercato agroalimentare, si scopre come l’elicicoltura, l’allevamento per riproduzione delle chiocciole, sia un settore quanto mai vivo e fiorente, pur con qualche elemento di difficoltà. E’ un sistema di allevamento naturale, che si avvicina molto al biologico. Tra i vantaggi, un mercato con prezzi alti, sicurezza della vendita e ridotti costi di alimentazione, costituita solo da vegetali seminati (cavoli a foglia aperta, insalate, bietola a foglia larga, girasole gigante e trifoglio nano), senza l’aggiunta di altro tipo di mangime. Trattandosi di un lavoro completamente manuale il problema da affrontare è, semmai, quello dell’investimento nella manodopera, un aspetto da non sottovalutare visti i costi del lavoro in Europa Occidentale (e quindi anche in Italia).
Tutto sulle chiocciole – Sul mercato si trovano due differenti tipi chiocciole: quelle allevate (tramite appunto l’elicicoltura) e quelle raccolte in natura. In quest’ultimo caso, però, si tratta solo di prodotti d’importazione, dato che ormai già dagli anni ’70 in Europa è vietata la raccolta di chiocciole allo stato libero. Da notare comunque come l’Italia sia il paese leader per la produzione in allevamento della chiocciola che ha di gran lunga una migliore qualità dato che, sul mercato, arriva un prodotto calibrato, pulito e spurgato. Infatti il corpo del mollusco è composto da un’alta percentuale di acqua (nel corpo vero e proprio e nella bava che copre la lumaca). E poiché l’acqua, durante la cottura, si disperde riducendo notevolmente il peso della chiocciola, è giocoforza che la lumaca raccolta (e pertanto non spurgata) sia di qualità inferiore. La chiocciola italiana è anche garanzia di igiene, oltre che di migliore resa in cucina, in quanto nutrita esclusivamente di vegetali selezionati e mantenuta nei recinti in condizioni igienico-sanitarie controllate. La chiocciola è un mollusco terrestre che già da tempo fa parte della nostra cultura e della nostra tradizione, essendo stato, in periodi di maggiore povertà, un alimento ricco di proteine che si trovava in natura a costo zero. Le sue qualità nutrizionali infatti si dividono tra un 13.5% di proteine e una minima percentuale di grassi (circa l’1.5%). Per quanto riguarda l’apporto calorico, una porzione di lumache senza condimento (ad esempio una dozzina) fornisce circa 100 calorie: si tratta pertanto di un alimento tra i meno calorici.
Il mercato – Quando, negli anni ’70, l’Europa arrivò ad emanare le prime direttive e le prime leggi che proibivano la raccolta delle lumache in natura in tutti i paesi CEE, quel mercato è scomparso. Per sopperire a questo ‘buco’ per assenza di prodotto, si è arrivati a ricostruire in allevamento il ciclo completo, usando l’alta riproduttività della lumaca, facendo nascere i piccoli e facendoli crescere.
Ad agricultura.it, parla Giovanni Avagnina, direttore e fondatore dell’Istituto Internazionale di Elicicoltura di Cherasco (Cuneo): “Il mercato è stato monitorato solo dall’86 e abbiamo notato che non c’è mai stata un rallentamento (‘86 a parte, anno di Chernobyl). E’ un mercato che è gradualmente cresciuto e oggi il prodotto lordo sul territorio italiano si attesta intorno alle 36mila tonnellate. Considerando che inizialmente eravamo su livelli inferiori ad un terzo di quello attuale, l’incremento è stato notevole. Ed ogni anno c’è da notare un aumento che varia dal +3 al +8%, a seconda dell’annata”. E poi: “Per fare un esempio – aggiunge Avagnina – si può dire che dal 2006 al 2007 – che, ormai è un fatto assodato, è stato un periodo di crisi – l’incremento nel campo elicolo è stato comunque del 5%. Ciò vuol dire che nonostante tutto la lumaca non è andata così male, sebbene rappresenti una piccolissima porzione del mercato agricolo. Da tenere presente inoltre che stiamo parlando non solo del mercato italiano, ma di quello mondiale. Infatti non appena i paesi come il Giappone, gli USA, i paesi arabi ricchi, che prima si accontentavano di mangiare lumache cinesi o di Taiwan a bassissimo costo, hanno scoperto che si trovavano prodotti migliori, hanno deciso di indirizzare la propria scelta sulle produzioni italiane. E questo ha determinato un importante ampliamento del mercato con una notevole influenza anche sul prezzo: in questi ventidue anni di monitoraggio, infatti, non abbiamo mai assistito ad un calo del prezzo di vendita”. Oggi il mercato dell’elicicoltura vale la bellezza di circa 180milioni di euro.
I prezzi – Il prezzo dipende dalla specie e dalla qualità. Quello delle lumache d’importazione, che non sono spurgate, calibrate e asciutte, è inferiore del 30% rispetto a quello delle lumache d’allevamento. Le chiocciole d’allevamento sono invece asciutte, omogenee di misura, calibrate, della stessa età e giovani e pertanto facili da cuocere (la lumaca vecchia si cuoce in due ore, quella giovane in mezz’ora), con una carne più tenera e fragrante. Il prezzo delle lumache d’allevamento, nelle sue specie più importanti, si aggira dai 4,5 ai 5,5 euro al chilo. Mentre il prezzo di quelle d’importazione varia dai 3,6 ai 3,7 euro al chilo.
Investire nell’elicicoltura – In termini quantitativi (considerando alcuni fattori peculiari dell’elicicoltura, primo su tutti che si ha a che fare con animali particolari, che rispondono poco alle sollecitazioni degli operatori), si ottiene circa un chilo di prodotto all’anno per ogni metro quadro di recinzione, unico strumento necessario, questo, per iniziare l’attività nell’elicicoltura. Una produzione annua che ci si può attendere a partire dalla seconda stagione di attività, una volta che l’impianto è a regime.
30 anni per l’Istituto nazionale di elicicoltura di Cherasco (Cuneo) – A tutela di questo mercato l’Istituto Internazionale di Cherasco (Cuneo), fondato nel 1972, si pone quali obiettivi principali la ricerca scientifica per la produzione a ciclo biologico delle chiocciole da gastronomia. L’istituto informa gli operatori sui sistemi di produzione in allevamento, fa assistenza nell’impostazione, costruzione e gestione degli impianti elicoli e non solo: promuove attività di controllo e selezione delle chiocciole, con analisi periodiche degli allevamenti (è prevista anche l’assegnazione del titolo “Lumache Italiane” per i prodotti migliori) e svolge anche corsi di formazione per gli operatori. Un’attività, dunque, a 360°, in cui sono compresi anche eventi di comunicazione e la pubblicazione di un periodico specialistico, “L’elicicoltura”, diretto dallo stesso Avagnina. Quest’anno si festeggia il trentennale della nascita dell’Associazione nazionale elicicoltori riconosciuta, dopo soli due mesi dalla fondazione, dall’AIA (Associazione Italiana Allevatori). Gli iscritti all’Associazione sono quasi 10mila per un totale di 7mila ettari d’allevamento in Italia, dislocati per il 70% nel Sud Italia e per il rimanente 30 al Nord. Nel 1984 lo Stato Italiano ha riconosciuto l’elicicoltura come attività agricola anche dal punto di vista fiscale, l’ha inserita nella Tabella A delle produzioni agricole. “Una delle attività principali dell’Istituto è l’assistenza commerciale ai produttori – spiega ancora il presidente e fondatore Giovanni Avagnina ad agricultura.it -. Attraverso le opportune convenzioni, infatti, l’Istituto da anni è in grado di garantire l’acquisto e la messa sul mercato dei prodotti provenienti dagli allevamenti italiani. Si tratta quindi di un’esperienza che ci ha portato da una parte a capire e studiare l’allevamento e, dall’altra, con l’acquisizione di qualche esperienza in più, a promuovere quest’attività con adeguati metodi di comunicazione”. Oltre all’Italia, le attività dell’istituto si svolgono anche all’estero: vengono seguite attività colturali in Serbia, Romania, Croazia, Germania, Francia, Grecia, Spagna, Bosnia, Tunisia, Argentina, Bulgaria, Ungheria, Russia e Sud Africa. In questi paesi si esporta il “sistema italiano” con la garanzia del ritiro dell’intera produzione. In Italia, le regioni in cui è più diffusa l’elicicoltura sono la Sicilia, la Sardegna, la Puglia e la Toscana. Sono anche le regioni con il maggior consumo pro-capite e quindi anche quelle con maggiore tradizione nel settore.