In merito a quanto riportato dalla rivista americana “Good”, secondo la quale una delle spie degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale è la drammatica diminuzione delle api, il Prof. Umberto Solimene, Direttore del Centro Ricerche di Bioclimatologiadell’Università di Milano, coglie l’occasione per ricordare come questo dato confermi quanto già emerso nel 2009 da una ricerca dell’Università di Milano, che ha analizzato le osservazioni meteorologiche dal 1880 e le osservazioni satellitari dal 1978 fino a oggi.
Ricerca – Il progetto scientifico si era posto infatti l’obiettivo di fornire un quadro del reale impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità e sulle api in particolare. I risultati della ricerca coincidono con le conclusioni riportate oggi dalla rivista “Good”, ovvero che l’aumento della temperatura del pianeta incide negativamente sulla salute delle api e quindi sulla produzione di miele, la cui produzione rischia di scomparire da qui a 100 anni. La ricerca è stata condotta analizzando numerosi studi eseguiti a livello internazionale sulle evidenze storiche e attuali della moria delle api, cercando di chiarire i processi di sviluppo del fenomeno e la relazione dello stesso con l’osservazione di precedenti episodi epidemiologici che attraverso i decenni hanno coinvolto importanti comparti geografici.
Riscaldamento globo – “L’attuale fase di cambiamento climatico denota un progressivo riscaldamento su scala globale, particolarmente accelerato negli ultimi 20 anni” – spiega il Prof. Solimene, coordinatore del progetto – “Dall’analisi è emerso come il recente riscaldamento stia fortemente influenzando i sistemi biologici terrestri, in particolare l’anticipo degli eventi primaverili, tra i quali la fioritura, la migrazione degli uccelli e la deposizione delle uova e gli spostamenti delle specie vegetali e animali verso latitudini più alte. Il cambiamento climatico assume quindi un ruolo da protagonista nella genesi del fenomeno della moria delle api.”
Stress per le api – “La prima importante conclusione della ricerca riguarda l’evidenza di un chiaro restringimento della stagione invernale che ha innescato, per riflesso, un probabile allungarsi della finestra di attività delle api, ipotizzabile in 20-30 giorni di lavoro in più l’anno” – continua il Prof. Solimene – “Ciò prefigura uno stress aggiuntivo a carico delle api che comprometterebbe la loro salute. Lo stesso sincronismo tra la fase della fioritura e la ripresa delle attività di volo delle api dopo l’inverno potrebbe aver subito importanti sfasature”. Una seconda conclusione della ricerca, non meno importante e strettamente collegata alla prima, riguarda l’evidenza che il ciclo vitale delle api, durante il periodo invernale, tende a bloccare le covate. Tuttavia, le anomalie termiche osservate negli inverni dell’ultimo decennio, possono aver causato stimolazioni e segnali che hanno facilitato covate precoci, se non covate invernali. Il ciclo biologico della varroa, acaro parassita, è intimamente legato alle covate, e potendo così sfruttare una maggiore disponibilità di covate fuori stagione riesce a compiere più cicli biologici risultando infine molto aggressivae rendendo inefficaci le misure di profilassi adesso in uso.