C’è un filo che lega i territori che scorrono lungo l’Appennino e che, da una parte e dall’altra, scendono lo stivale per raggiungere i rispettivi mari di un mare ancora più grande che è il Mediterraneo, il nostro mare. Il filo è quello dell’olio, con i suoi olivi e i piatti di una cucina delle diversità grazie alla ricca biodiversità e alla storia, entrambe, queste ultime, espresse dai territori che racchiudono questo mare di antiche e moderne civiltà. Uno stile di vita segnato fortemente dal territorio, che è storia di civiltà, tratturi, scontri, unioni; cultura, tradizioni, strette di mano, dialogo, ospitalità, amicizia, cura dell’arte e di quei paesaggi unici di olivo e vite, orto e pescato, boschi di latifoglie; rispetto delle stagioni e delle tradizioni e, come tale, ricco di tante minute variazioni dovute al luogo, alle mani e alla fantasia delle donne, al tipo di conservazione dei prodotti o dei piatti. Cioè, un insieme – come recita la motivazione dell’Unesco del riconoscimento della Dieta Mediterranea quale patrimonio dell’Umanità – di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dal paesaggio alla tavola passando attraverso i prodotti della terra e del mare” per finire – come dico io – nelle nostre mani o nei nostri piatti e diventare così cibo, alimento che, quando è sano, dà il piacere della salute. Sta qui la ricchezza di una cucina, soprattutto nel Molise, fatta da diversità di prodotti e di proposte, per lo più espressioni di semplicità capaci di dare gusto alle emozioni di una tavola profumata, ricca di voci oltre che di colori, che riporta al convivio quale luogo d’incontro con gli altri e, come tale, centro e fonte di cultura.
Sana alimentazione – Una cucina veloce, salvo che nei giorni di festa o da ricordare, quando i preparativi erano lunghi anche giorni o settimane. Una cucina, in pratica, che aveva tutti gli ingredienti a portata di mano. Grazie all’orto, all’allevamento di animali di bassa corte; al ristretto mare; ai piccoli, minuti centri abitati, immersi in una campagna che, per quanto riguarda il Molise, dona un verde particolare, unico, speciale. Parlo del Molise e, salvo alcune eccezioni o variazioni sul tema, il riferimento è alle regioni del nostro meridione e al Mediterraneo, culla dell’olivo e dell’olio, delle verdure, della frutta, dei cereali, del pescato e degli animali che, prima ancora della carne, danno uova, pelli, lana. Prendo come esempio di un’eccezione, il bergamotto, un agrume sfruttato soprattutto per le sue essenze, che occupa un’area tutta particolare della provincia di Reggio Calabria, o, anche, il pistacchio di Bronte in Sicilia, o, ancora, il Caciocavallo silano che appartiene a tutto l’Appennino meridionale. Potrei continuare ma mi fermo per riflettere su una leguminosa, la fava, che, come l’olio, è tutta mediterranea. Un legume diffuso dalla notte dei tempi per la sua versatilità che, quando si unisce alle cicorie si presenta come piatto delizioso, simbolo del “mare nostrum”, sia preparato nel Molise, con le fave secche intere, che in Puglia, dove le fave diventano un purè. Penso, certo, al brodetto o zuppa di pesce che varia da luogo a luogo e che, ovunque, delizia il palato, ma, anche, alle alici fritte, in tortiera o spinate e fatte cuocere su un letto di fette di patate o, anche, marinate. Penso alla “Scapece” di Vasto, il “liquanem” di cui parla Apicio, che serviva a conservare la razza con l’aceto e lo zafferano in una tinozza di legno che animava e ancora anima le fiere che si svolgono dalle nostre parti; alla colatura delle alici a Cetara, borgo marinaro all’inizio della Costiera amalfitana, o alle alici ben preparate e conservate dalle donne di Pioppi, il piccolo borgo marinaro nel Comune di Pollica, patria eletta della Dieta Mediterranea, per aver ospitato il suo cantore, Ancel Keys, e la moglie Margaret.
Tradizione – E poi il forno con la pizza “de rarature” l’ultima a farsi e la prima a mangiare posta com’era davanti alla bocca del forno e, poi, le pizze (bianca all’olio o nelle ramere se di pomodoro) che servivano per stemperare il mattone che doveva accogliere l’impasto di farina, acqua e lievito, il pane, e, anche, per lasciare riposare e asciugare il pane ancora caldo per qualche giorno, prima di essere tagliato e mangiato. Le pizze che, un tempo, lasciavano una scia di profumo lungo le strette vie dei paesi, con le donne e noi bambini che le portavano a mano dal forno a casa e tutto sembrava un ballo, una danza in onore più che della fame, del gusto. Ecco i grani, le farine, le paste, quelle lunghe come le antiche lagane dei romani (laganelle per i molisani e tagliatelle per gli italiani), oppure corte (sagnetèlle) perché meglio si prestavano per piatti unici con verdure coltivate o spontanee, oppure con i legumi, in particolare fagioli e ceci. Le stesse polente che, con l’arrivo del mais, diventano gialle o pizze di granone sotto la coppa con le verdure (foie) che danno “pizz’é foie”, un piatto oggi ricercato. Tornano nella mente il basilico e il prezzemolo sui balconi, le finestre o, anche, davanti alla porta delle piccole case dentro vasi improvvisati; il timo, la maggiorana, il mazzetto di origano selvatico, le trecce di aglio e cipolla, il profumo delle mele e dei meloni conservati per l’inverno. E, poi, la festa, la grande festa con il concerto finale prima dei botti, la ciambotta o, come si dice dalle mie parti, ciabbotta, che mette insieme in un tegame, come su una decorata cassa armonica, musicisti particolari per profumi e sapori come la cipolla, l’aglio, le melanzane, i peperoni, le zucchine, le patate, il sedano e il basilico, cioè le bontà dell’orto magistralmente dirette dall’olio di oliva che, come si sa, è quieto per natura, o, meglio, ha nel silenzio la sua anima.