Non c’è crisi per la pasta italiana, che “resiste” sulle tavole nonostante il crollo dei consumi e continua incontrastata a conquistare i mercati stranieri. Sul fronte “spaghetti & company”, il Belpaese non ha rivali e batte ogni primato: l’Italia resta il primo produttore al mondo con 3,3 milioni di tonnellate per un controvalore di 4,6 miliardi di euro, il primo consumatore con 26 chili pro capite e il primo esportatore con 1,9 milioni di tonnellate. E’ quanto afferma la Cia-Confederazione italiana agricoltori, in occasione del “World Pasta Day 2013”.
Mercato – Nonostante il lieve calo delle quantità acquistate (-1 per cento nei primi otto mesi del 2013) dovuto alle difficoltà economiche delle famiglie -spiega la Cia- la pasta resta uno dei piatti più amati dagli italiani. Che, per non rinunciarci, con la crisi si sono piuttosto orientati verso confezioni “low-cost” e format distributivi più convenienti come i discount (+4,5 per cento), portando a una riduzione della spesa per tagliatelle e rigatoni del 9 per cento circa.
Consumi – Gli italiani, quindi, rimangono i maggiori consumatori mondiali di pasta, con una netta preferenza per la pasta secca (22 chili a testa) rispetto a quella fresca (4 chili) -ricorda la Cia-. Seguono a notevole distanza i venezuelani con 13 chili a persona, i tunisini (11,9 chili), i greci (10,4 chili), gli svizzeri (9,7 chili), gli svedesi (9 chili), gli americani (8,8 chili), i cileni (8,4 chili), i peruviani (8,3 chili) e i francesi (8 chili). Ma l’Italia mantiene anche la leadership di primo produttore globale: nel 2012 -spiega la Cia- gli Stati Uniti si sono fermati a 2 milioni di tonnellate, il Brasile a 1,3 milioni di tonnellate e Russia e Turchia a meno di un milione di tonnellate annue.
Export – Di contro lo Stivale, con 3,3 milioni di tonnellate prodotte, resta prima sul podio e continua a volare oltreconfine. Nel 2012 l’export è cresciuto del 7 per cento -evidenzia la Cia- e anche il primo semestre di quest’anno il trend si mantiene positivo con il +6 per cento. In particolare, il 73 per cento delle esportazioni finisce nei piatti dei consumatori europei, il 13 per cento negli Usa e il 14 per cento nel resto del mondo. Ma con “boom” senza precedenti nei nuovi mercati emergenti, prima di tutto la Cina (+60 per cento). Un successo a cui contribuiscono anche i nostri agricoltori -conclude la Cia- che continuano a coltivare grano duro nonostante i problemi strutturali del comparto: i costi produttivi sempre più alti, i prezzi sui campi non remunerativi e troppo soggetti alle fluttuazioni dei mercati internazionali e l’assenza di politiche mirate per il settore.