La “cultura naturalistica” in Italia per ragioni storiche è stata da sempre considerata di secondaria importanza e di fatto penalizzata e diluita. Questo ha fatto rimanere l’Italia, e i paesi mediterranei in generale, in uno stato di arretratezza “naturalistica” che oggi paghiamo in termini economici.
Uno degli aspetti più negativi è il fatto che credenze popolari senza fondamenti scientifici derivanti dalla “civiltà” contadina si sono insinuati nel pensiero corrente affermandosi per ragioni di ignoranza o, peggio, di opportunità e speculazione. Una di queste credenze è quella che il bosco sia “sporco” e debba essere “pulito” come se fosse un portico o un pavimento. Il termine “pulizia” riferito al bosco viene infatti spessissimo utilizzato su giornali e in televisione anche per bocca di persone del settore, in genere liberi professionisti chiamati dagli enti per consulenze in barba alle eccellenze in essi presenti. Fatta questa premessa è importante chiarire e argomentare perché chi parla di rimozione del sottobosco come atto gestionale teso al corretto mantenimento del bosco e alla prevenzione degli incendi commette un grave errore pratico e pronuncia una sorta di blasfemia in termini ecologici. Il bosco (e quindi anche la pineta che altro non è che un bosco di pini) non è semplicemente una distesa di alberi gli uni accanto agli altri in un continuum orizzontale, ma una struttura complessa costituita di diversi strati verticali. Al suolo abbiamo una lettiera di foglie morte dove funghi e organismi detritivori decompositori svolgono la funzione essenziale di ridurre ad humus il materiale vegetale inerte; a metà altezza abbiamo il sottobosco di giovani alberi in crescita (plantule) e arbusti, che non sono solo un intrigo che impedisce il passaggio, ma piuttosto rappresentano uno strato vitale che permette il mantenimento delle condizioni di luce e umidità che consentono allo strato sottostante di svolgere la sua attività di decomposizione e di rimessa in circolo delle sostanze nutritive. L’ultimo strato, quello più in alto, è costituito dalle chiome degli alberi la cui rigogliosità, forza e salute sarà strettamente dipendente dalla qualità del suolo sottostante. Insomma il bosco rappresenta un unico grande super organismo connesso in tutte le sue parti e, come oggi le incredibili scoperte dell’Italiano Stefano Mancuso ci dicono, le piante sono in grado di comunicare tra loro grazie intimi collegamenti tra le radici.
Ma non lasciamoci andare a pensieri filosofici sull’anima del bosco e analizziamo in modo concreto e pragmatico che cosa vuol dire rimuovere il sottobosco in termini gestionali. Rimuovere lo strato centrale tra le chiome e il suolo vuol dire togliere uno strato vitale del bosco, amputarne un organo funzionale. Senza il sottobosco e la sua ombra l’umidità al suolo diminuisce drasticamente e allo stesso tempo la temperatura aumenta. La domanda che si pone è di quanto aumenta? Pensiamo alla differenza tra stare sotto un obrellone o sotto il sole, qualsiasi organismo in grado di muoversi (uomo incluso!) dopo un po’ deciderà di spostarsi o sarà costretto a soccombere. E’ così che il bosco senza sottobosco perde da subito gli organismi decompositori e la sua attività di degradazione al suolo delle foglie cadute. Sul lungo periodo come conseguenza si avrà la creazione di un substrato peggiore per gli alberi ed un loro progressivo indebolimento, che in un ambiente duro come quello costiero lascerà facile gioco ai parassiti come i coleotteri Scolitidi, non specie aliene, ma semplicemente specie che approfittano di condizioni ad essi favorevoli.
Conseguenze – In un bosco senza sottobosco gli ammassi vegetali di foglie o aghi rimarranno sul suolo secco accumulandosi in vasti tappeti esposti al calore estivo, ormai la loro decomposizione non può più avvenire. In queste condizioni le possibilità di un incendio aumentano in maniera esponenziale, ossia l’opposto di quello che si credeva di fare rimuovendo il sottobosco e “pulendo” il bosco.
Ma il paradosso non finisce qui, l’altro effetto importantissimo del sottobosco è il cosiddetto ”Effetto buffer”, ancora un concetto base dell’ecologia che speriamo nel 2013 sia finalmente entrato nei corsi di laurea in scienze forestali. Si tratta di quell’effetto provocato dalla presenza contemporanea di tanti organismi animali e vegetali di specie diverse organizzati in una comunità; quanto più numerose sono le specie presenti (ossia quanto più biodiversa è la comunità) tanto più grande sarà la capacità della comunità stessa di tamponare le perturbazioni provocate dalla sovrabbondanza di una specie o dell’altra. Cosa che non può avvenire nelle monoculture dove l’insetto parassita di turno che si nutre della sola pianta coltivata potrà proliferare a dismisura senza trovare nessun competitore o nemico naturale che invece troverebbe in una comunità vegetale strutturata (per esempio nei mosaici agrari con campi bordati da siepi!).
Pulizia del bosco – Tornando al bosco e alla pineta quindi la “pulizia” diminuirà la capacità di rispondere ai cambiamenti e alle malattie e altererà il suo corretto funzionamento aprendo la strada ad una morte lenta e progressiva. Per fortuna nella costa della maremma grossetana esistono ancora lembi di pineta dalla struttura integra e che costituiscono un bellissimo esempio di come debba essere la pineta costiera per rimanere in perfetta salute; stiamo parlando dell’Oasi di San Felice, sul lato destro della Fiumara San Leopoldo, una pineta di un proprietario illuminato, la Allianz Assicurazioni, gestita, o se vogliamo, semplicemente mantenuta dal WWF Oasi. E’ qui che nel mese di maggio 2013 per volere del Museo di Storia Naturale della Maremma e grazie alla Fondazione Grosseto Cultura (cultura naturalistica in questo caso!) si sono radunati esperti naturalisti di tutta la Toscana per descrivere minuziosamente, in quello che è stato uno dei primi Bioblitz italiani, la ricchissima biodiversità di questo lembo di pineta maremmana dove il sottobosco regna incontrastato. Un segnale forte, un messaggio che voleva dire alle istituzioni e alle associazioni ambientaliste che gestiranno il ricco recupero della pineta di Marina di Grosseto: “questo è il modello da seguire! Non cercatene invano altri fallaci e dannosi!”. Un messaggio moderno e con alle spalle solide basi scientifiche, un messaggio che i tagli a raso della pineta di Marina e le recenti piantumazioni di giovani piante in geometrica fila indiana come soldatini immobili nella calura estiva rivelano non essere stato purtroppo ancora compreso.
CHI E’ FRANCESCO PEZZO – Nato a Siena nel 1968 è un biologo che si occupa di fauna selvatica e di conservazione della natura. Il suo interesse è particolarmente rivolto alla comprensione delle relazioni tra organismi e ambiente e allo sviluppo di strategie per la conservazione degli habitat. Ha conseguito il dottorato di Ricerca in Zoologia presso l’Università di Oxford occupandosi dell’ecologia degli uccelli acquatici. È stato docente di Ecologia Animale e di Ornitologia presso l’Università di Siena e ricercatore presso l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) di Bologna. Nella sua carriera ha partecipato a progetti di ricerca in Italia e all’estero tra i quali quattro campagne italiane in Antartide (ENEA) e tre spedizioni in Himalaya (EvK2-CNR). Dal 2009 è un collaboratore del Museo di Storia Naturale di Grosseto e segue progetti di ricerca e monitoraggio degli uccelli nel Parco Regionale della Maremma e nelle Oasi WWF della Toscana meridionale. È anche membro del comitato scientifico del Centro Ornitologico Toscano che, per conto della Regione Toscana, svolge il monitoraggio di tutte le specie di uccelli della regione per la redazione del nuovo atlante ornitologico regionale.