Presidente Maracchi, in quale direzione sta andando l’Accademia dei Georgofili?
L’agricoltura non è più quella che è stata negli ultimi cinquanta anni, ovvero attività primaria per l’alimentazione ma con una rilevanza economica modesta. Oggi con la globalizzazione, con le crisi nel manifatturiero e industria, basta una cifra: 160 miliardi di euro per l’agroalimentare e 300 miliardi di euro in manifatturiero, queste sono le cifre in Italia, l’agroalimentare non è più residuale ma diventa un’attività importante. Questo è quello che emerge dal profilo economico, ma quello che io sostengo è che l’agricoltura ha anche tutta un’altra serie di funzioni che erano state trascurate, dimenticate o sostituite, negli anni dall’ultima guerra ad oggi, e sono: intanto di carattere sociale, ovvero la gestione dei territori rurali sta acquistando un suo appeal, perché le città stanno diventando troppo grandi nel mondo; e l’equilibrio tra civiltà urbana e civiltà rurale si è spezzato, e molto probabilmente bisogna invertire la rotta. Poi perché l’agricoltura oggi è legata ai problemi della sostenibilità planetaria, non è soltanto food, ma è anche altri prodotti di base. Penso alla chimica verde, all’energia, al tessile e alle fibre e alle plastiche. Questi sono elementi che fino a 30/40 anni fa nessuno immaginava, mentre oggi a fronte della crisi climatica e ambientale, l’agricoltura è l’unica tecnologia che utilizza la fotosintesi, che è l’unico processo poi responsabile di produzione di materie prime senza ricorrere al petrolio.
Come vede l’attuale stato di salute dell’agricoltura toscana e su cosa dovrà puntare nei prossimi anni?
L’attuale stato di salute dell’agricoltura toscana sembra un po’ monocorde. Nel senso che è prevalentemente legata alla produzione del vino di qualità, dell’olio ma con grandi difficoltà. Importante è il vivaismo, anche se spesso non è considerato un settore legato all’agricoltura; altri settori che un tempo erano più presenti nelle aree pianeggianti vicino alla costa, in Maremma, quali orticoltura, oppure l’allevamento bovino che ora è più residuale, sono diventate d’importanza relativa e potrebbero essere nuovamente di nuovo sviluppate.
Cambiamenti climatici: al recente convegno Cia di Palazzo Vecchio, lei ha sintetizzato dicendo che “se ne sono accorte anche le lucertole”: qual è in questo senso il ruolo dell’agricoltura?
Si parla di cambiamenti climatici ormai da 25 anni, ho partecipato alle Conferenze delle parti, ero presente a Kyoto per il Protocollo. Siamo stati i primi, già nel 1980 a Ginevra alla Prima Conferenza Mondiale, a cercare il modo per intervenire contro i cambiamenti climatici. Nella pratica non è cambiato molto, aldilà dei protocolli e di alcune normative sulle emissioni, non è stato fatto un lavoro radicale, perché la soluzione ai cambiamenti climatici è legata al modello economico. E finché il modello economico rimane questo… Il ruolo dell’agricoltura è fondamentale, perché solo con un certo tipo di agricoltura, che a sua volta ha due caratteristiche: da una parte è una componente che determina cambiamenti climatici con le sue tecnologie, dall’altra se gestita in modo un po’ diverso potrebbe essere la soluzione. Per esempio, qualche anno fa abbiamo fatto un rilievo aereo delle emissioni per la Regione Toscana, è emerso che se tutta la regione fosse come la parte meridionale (province di Siena e Grosseto ed in parte Arezzo), noi saremmo dentro il Protocollo di Kyoto. La concentrazione dei gas effetto serra in termini negativi c’è, maggiore emissione rispetto a quanto sia l’assorbimento è tutta concentrata lungo la valle dell’Arno, dove c’è maggiore urbanizzazione e minore agricoltura. Quindi l’agricoltura probabilmente è la soluzione ai cambiamenti climatici, con degli interventi e tecniche attualmente disponibili di risparmio energetico nonché produzione di energie rinnovabili. Se si riuscisse a fare una griglia normativa che facilita le cose. Per esempio: in Italia ci sono 5 milioni di fabbricati rurali (rimesse, stalle, ecc.), farci il fotovoltaico, più altre forma di energie rinnovabili (biomasse, biocarburanti, mini eolico) si può raggiungere il 30% del fabbisogno energetico nazionale.
Quali sono le cause principali?
Le principali cause del cambiamento delle condizioni climatiche sono in primo luogo le emissioni dei gas effetto serra, le tecnologie legate al petrolio.
Possiamo dire che sono cambiate le stagioni: le aziende agricole come possono difendere le proprie produzioni?
Possiamo dire che le stagioni sono cambiate, ovvero è aumentata molto la variabilità interannuale. Poiché le stagioni intermedie – o mezze stagioni, primavera e autunno – non sono delle vere e proprie stagioni ma sono delle fasi di passaggio verso le vere stagioni, climaticamente parlando, che sono estate ed inverno, venendo a cambiare spesso l’azione e l’intensità dei grandi centri di azione climatica, ci interessano l’anticiclone delle Azzorre l’estate e l’anticiclone della Siberia d’inverno, ne risentono le mezze stagioni che possono essere anticipate o posticipate, o come quest’anno l’inverno è molto caldo, e fortunatamente attualmente è presente una bassa pressione polare abbastanza debole, per cui non manda aria fredda, che in questo periodo causerebbe gravi danni alla vegetazione già molto avanzata. Le conseguenze di questi cambiamenti hanno notevoli ripercussioni per quanto riguarda l’invasione dei parassiti, che un tempo non erano presenti o la loro diffusione era limitata. Aumentando la variabilità aumenta anche la fragilità del sistema.
Ricerca, innovazione e consulenza possono dare una mano agli agricoltori in questo cambio di scenario climatico, ambientale e produttivo?
Sicuramente la ricerca, l’innovazione e la consulenza sono determinanti per l’agricoltura. Ovviamente il nostro Paese, sotto questo aspetto dovrebbe avere un po’ più di fiducia nella ricerca, e la ricerca a sua volta dovrebbe essere più incline ad affrontare temi pratici. Per esempio negli Stati Uniti nessuna Università si vergogna a fare dei manuali tecnici di buona qualità per gli agricoltori, questo non vuol dire non fare pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali qualificate; da noi purtroppo si è passati da una fase dove le pubblicazioni non erano di pregio ad un a fase dove le pubblicazioni devono essere di spessore. In questo modo non si spinge i giovani ad affrontare, e pubblicare, aspetti più tecnici e pratici per l’agricoltura.
Cosa può fare l’Accademia?
In questa direzione l’Accademia può avere un ruolo di primaria importanza, anche se uno dei vincoli dell’Accademia sono le risorse, non ha risorse proprie ma solo di competenza, avendo 700 accademici che rappresentano tutto il sapere che c’è in Italia nel settore agricolo – ambientale, però non ha risorse materiali. Questo è un limite. Per esempio tempo fa c’era la famosa REDA (Ramo Editoriale Dell’Agricoltura) che proponeva pubblicazioni tecniche – divulgative di discreto livello, e che oggi non esistono più. L’Accademia in questo settore potrebbe dare un contributo importante.
Quale agricoltura ci dobbiamo aspettare nel futuro?
Il mio auspicio per il futuro dell’agricoltura è che non sia più una cenerentola, che diventi finalmente multifunzionale, ovvero che non fa soltanto l’agriturismo ed il vino, ma che risponde a problemi sociali, come il rapporto tra città e campagna, che nonostante sia del 20% della popolazione in aree rurale,c’ anche la tendenza ad invertirsi, ovvero ci sono sempre più giovani disposti a lasciare le città per ritornare ad occuparsi di campagna, anche se non è sempre una cosa semplice in quanto alla base c’è un problema di disponibilità economica. Il problema principale è la funzione della gestione del territorio, che è per il 60-70% collinare e montano ed ogni volta che piove un po’ di più si allaga tutto, questa è una conseguenza dell’assenza della gestione del territorio, che un tempo c’era. Per esempio un paese a noi vicino, la Svizzera, ha fatto un referendum popolare due anni fa – ed è già il secondo o terzo che fa, il quesito era: “Siete disposti a pagare più tasse per mantenere gli agricoltori in montagna?”. Il responso è stato favorevole per l’80%. Certo non è con la gestione del territorio agricolo che si risolve il problema delle alluvioni, ma una gestione attenta del rischio idrogeologico, può contribuire ad evitare la perdita del territorio. Una politica in tal senso è stata fatta solo ad inizio anni Cinquanta, quando c’erano i cantieri forestali e fu rimboschita una buona parte del territorio, era necessario dare lavoro. E’ dalla metà degli anni ’60, con lo sviluppo economico si è lasciato andar via tutto.
(Dimensione Agricoltura – aprile 2015)
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