A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento a Gheel, un villaggio del Belgio (*), le famiglie contadine che non emigravano verso i centri urbani ospitavano i familiari con disagio fisico o psichico di quanti, cercando fortuna in città, non avrebbero più potuto occuparsi dei congiunti più fragili. Il villaggio di Gheel sul finire del 1800 ospitava in numero di uno o al massimo due persone presso ogni famiglia fino a 800 “alienati”, così erano definite le persone con disagio mentale, “che erano guidati come fanciulli” e partecipavano alla vita sociale e lavorativa delle famiglie ospitanti per quanto fosse loro possibile, mentre nei centri urbani andava aumentando il numero delle persone istituzionalizzate.
Quanto accadde a Gheel mette in luce come le comunità rurali e l’agricoltura tradizionale abbiano la capacità di contenere, integrare e dare dignità alle persone con specifici bisogni grazie alle forme di solidarietà, mutuo aiuto e reciprocità che caratterizzano le relazioni in questi contesti.
L’agricoltura sociale, che si alimenta delle peculiari caratteristiche dell’attività e della sensibilità rurale, nasce dall’incontro e dall’integrazione degli elementi propri dell’attività agricola con gli ambiti di intervento dell’attività sociale. Si pone come nuovo strumento e nuovo contesto educativo, terapeutico e riabilitativo per problematiche riconducibili a diverse tipologie di beneficiari, dalla persona disabile al paziente psichiatrico, dal minore a rischio al detenuto iscrivendosi a pieno titolo tra le pratiche d’intervento del welfare italiano caratterizzato dalla commistione tra elementi pubblici e del privato, profit e non profit, fornendo strumenti operativi per processi di crescita e per l’integrazione sociale e lavorativa delle persone coinvolte.
Lo sviluppo e l’affermazione dell’agricoltura sociale procede di pari passo con la progressiva diversificazione delle attività nell’ambito dell’azienda agricola. La multifunzionalità permette di progettare e sviluppare percorsi educativi di vario tipo costruiti intorno alla persona e rimodulabili in chiave euristica grazie proprio ai diversi contesti operativi che l’agricoltura offre. Il contesto in cui il progetto di agricoltura sociale si realizza è assai variabile e va dalla coltivazione degli ortaggi, all’allevamento di animali, da un piccolo orto alle grandi superfici, dalla ristorazione all’accoglienza turistica. Lo spazio, le modalità di intervento, le opportunità di crescita e sviluppo personale, relazionale e lavorativo sono eterogenee e possono facilmente adattarsi ad individui ed obiettivi anche molto diversi tra loro. Quando si costruisce un progetto di agricoltura sociale si parte dal presupposto, sottolineato anche dall’OMS, che l’uomo tragga beneficio dalla vita all’aria aperta e dal contatto con la natura. Si tratta, infatti, di fattori che promuovono la salute e la qualità della vita delle persone.
L’intenzionalità progettuale alla base di un percorso di agricoltura sociale è la promozione del benessere delle persone coinvolte, il miglioramento della loro qualità di vita e non ultimo lo sviluppo e la stimolazione di comportamenti pro-sociali e pratiche inclusive che possano essere esportati dal contesto entro cui il progetto si svolge, ad ogni altro ambito della vita sociale, comunitaria e relazionale della persona coinvolta.
Questi gli obiettivi di ORTO CONDIVISO un entusiasmante progetto di agricoltura sociale della durata di sei mesi realizzato nella Casa Circondariale di Benevento tra febbraio e agosto del 2014. Il progetto è nato dalla collaborazione tra il penitenziario, il CESVOB (Centro Servizi per il Volontariato di Benevento) e l’associazione ONLUS La Clessidra nelle persone di Carmen Romano, Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica e Francesca Raimondo, Assistente Sociale Specialista con la passione per l’agricoltura e la natura e si inserisce nel continuum delle strategie e delle azioni svolte all’interno della struttura penitenziaria. L’agricoltura sociale è uno strumento che offre opportunità di riabilitazione, integrazione per persone che vivono situazioni svantaggiate, di marginalità, di esclusione sociale o di disagio. L’idea di avviare un progetto di agricoltura intramoenia è nato nel corso di una visita alla struttura carceraria e dalla scoperta di uno spazio incolto all’interno del padiglione maschile, nonché dalla volontà di rivitalizzarlo.
Entrando in carcere per la prima volta si rimane colpiti dal grigio che domina gli spazi, dal necessario rigore e dal rispetto metodico delle procedure che gli operatori hanno imparato dall’esperienza, ma che hanno un forte impatto sugli esterni. L’idea di proporre un laboratorio di agricoltura finalizzato alla realizzazione di un orto-giardino nasce dalla visione del penitenziario come luogo povero, per sua natura, di stimoli, che tende a deprivare ulteriormente chi lo vive a causa della continua ripetizione di un tempo sempre uguale che annulla pressoché il protagonismo di ognuno e la capacità di ciascuno di autodeterminarsi, di sentirsi competente e in grado di agire sugli eventi che accadono intorno a sé. Il penitenziario, inoltre, è uno spazio che necessariamente, ma drasticamente, riduce le possibilità di incontro, confronto e scambio e quindi di crescita e, paradossalmente, di cambiamento.
Obiettivo del progetto è stato introdurre elementi che poco o nulla avessero a che fare con le alte e spoglie mura del penitenziario e con la vita intramoenia, al fine di migliorare il livello di benessere generale dei partecipanti e fornire loro uno spazio personale in cui mettersi alla prova, pensare, agire, costruire sapendo che il risultato sarebbe stato proporzionale all’impegno profuso e al sapere acquisito. L’orto nasce come un luogo “in comune”: da progettare insieme, da coltivare insieme, da curare insieme. Perché una pianta germogli e porti frutto è necessario un lavoro costante, attento e rispettoso dei tempi della natura e nulla è scontato. Quest’ultimo aspetto ha determinato la specificità della proposta: la coltivazione di un orto si pone come metafora della vita, dove i programmi posso saltare e dove ci si trova continuamente a riformulare, ripensare, ricostruire, ricominciare. Il progetto è stato scandito da incontri settimanali organizzativi, esplicativi e pratici durante i quali sono state fornite ai partecipanti le nozioni sulle varietà da coltivare e mostrate, concretamente, le attività così da poterle svolgere poi in autonomia. Ogni settimana è stato fissato un obiettivo da raggiungere insieme ed ognuno è stato chiamato a partecipare con responsabilità ed impegno. I detenuti hanno partecipato ad ogni fase del progetto, dalla pulizia dello spazio assegnato, alla preparazione del terreno mediante dissodamento,definizione degli spazi e delle aree da utilizzare, concimazione e preparazione dei solchi per la messa a dimora delle piantine e delle sementi. Contestualmente si è proceduto con la formazione sulla cura delle stesse. La formazione sulla cura dell’orto è stata accompagnata dalla realizzazione di schede informative sulle singole piante coltivate. La seconda fase ha riguardato la raccolta e l’utilizzo dei prodotti giunti a maturazione. Ciascuno dei partecipanti attingendo alla propria personale storia, alla propria cultura e al proprio vissuto, ha proposto ricette e possibili utilizzi dei prodotti disponibili confluite, insieme con gli altri scritti, in un opuscolo che raccoglie e documenta il lavoro e il percorso che si è fatto insieme.
Il “fare insieme” contiene, infatti, l’implicito invito ad impara ad integrare il proprio lavoro e le proprie competenze con quelle degli altri nonché a sostenere e motivare chi ne sa meno proprio in vista di un obiettivo comune. Gli incontri giornalieri e settimanali hanno favorito gli scambi reciproci e l’instaurarsi di rapporti di solidarietà e cooperazione finalizzati alla buona riuscita del lavoro, ma anche lo scambio di sensazioni, emozioni, percezione ed idee. A tal fine sono stati individuati nel corso del progetto momenti di condivisione dell’esperienza che si stava facendo, delle emozioni e delle sensazioni vissute. Il “fare insieme” è diventato elemento di stimolo e di promozione di comportamenti pro-sociali, assumendo un valore trasformativo e migliorativo. Ha "acceso" in ciascuno l’interesse ad apprendere, lavorare, costruire e portare a termine le attività iniziate sperimentando le proprie forze, ed ha permesso, soprattutto, di aprirsi reciprocamente in virtù di un’esperienza comune.
L’attività agricola intramoenia ha dato la possibilità ai detenuti di sfruttare le loro capacità in una direzione per molti nuova o di scambiarsi conoscenze pregresse, di confrontarsi e di arricchirsi scambievolmente, oltre che di acquisire nozioni ed informazioni spendibili anche all’esterno, nonché un modo di sentire e di agire trasferibile in altri contesti di vita. Accanto al valore più squisitamente formativo e alla finalità professionalizzante del progetto, la coltivazione dell’orto è lo strumento mediante il quale si è favorito nei partecipanti l’acquisizione di nuove competenze sociali e civiche e una maggiore consapevolezza del valore dell’ambiente in cui viviamo. Lavorare la terra significa in primo luogo imparare a conoscerne le caratteristiche e le esigenze, significa imparare ad averne cura, a rispettarne i tempi, anche solo perché questa possa ricompensarci. L’orto intramoenia diventa quindi prolungamento dell’esterno, non ci sono regole nuove o diverse, e ponte con l’esterno perché la terra ha lo stesso odore, la stessa consistenza, le stesse esigenze e il penitenziario smette di essere, almeno per qualche ora, un eterno altrove. Tra le annotazioni di P., uno dei partecipanti, si legge: “…un raggio di luce ci ha illuminato…”.
Il progetto ha visto coinvolti e partecipi dieci detenuti e ciascuno ha vissuto in modo del tutto personale il percorso fatto come raccontano i loro “appunti di viaggio” e che permettono di capire quale sia stato il valore percepito del progetto. C’è chi scrive “quando ho cominciato il corso non sapevo neanche usare la zappa, il rastrello o la pala, invece ora sto capendo e di questa cosa ne vado fiero, almeno un domani quando finirò di scontare la mia pena avrò qualcosa di bello da raccontare”. Altri invece sono grati per l’iniziativa e la vivono come una possibilità di “ritorno alla vita semplicemente quotidiana”. Ad altri ricorda il mare e la voglia di tuffarsi ogni volta che se ne ha la possibilità, per sentirsi liberi. E c’è chi conclude il proprio diario scrivendo “non vedo l’ora durante la settimana di venire in giardino per respirare questa sensazione”.
È stato fortemente apprezzato lo sforzo fatto di mettere nero su bianco emozioni, riflessioni, stati d’animo in un racconto che personale che diventa corale, collettivo perché in esso si possono ascoltare anche le voci degli altri partecipanti. Il racconto di ogni episodio, di ogni impressione coinvolge gli altri compagni di viaggio. Ciò che viene fuori è un reale e pregnante senso di appartenenza ad un gruppo, definito da qualcuno come “una famiglia” perché l’interazione è libera e sincera, e la consapevolezza del proprio ruolo all’interno di un percorso in cui collaborare e condividere diventano paradigma di riferimento fondamentale e necessario
“Alcuni dicono che quando è detta la parola muore; io dico invece che proprio quel giorno comincia a vivere”. Le parole di Emily Dickinson rimarcano l’importanza della narrazione. I racconti aiutano a ricostruire il percorso fatto e a ricomporre il mosaico di emozioni, racconti, eventi piacevoli o spiacevoli che hanno dato colore al progetto e di comprenderne i risultati e i benefici. Il percorso fatto è stato positivo e gratificante grazie proprio ad alcuni aspetti specifici dell’agricoltura sociale e della coltivazione di un piccolo orto in particolare. Non solo o non tanto per i risultati oggettivi raggiunti, quali l’aver portato a maturazione i pomodori o aver visto fiorire i semi interrati, quanto per aver dato vita ad uno spazio di confronto e scambio nel quale, nel rispetto delle normali e civili regole di convivenza e nel reciproco riconoscimento, ciascuno si è sentito “libero”, accettato, competente, sicuro, apprezzato. Nel diario di L. si legge “il mio stress in questo periodo è: no tengo stress” e nell’ambiente carcerario è difficile per un detenuto prescindere dal proprio status e dalle preoccupazioni, dalle ansie, dalle attese che questa particolare condizione comporta. A differenza di altre attività educative e riabilitative che si svolgono all’interno e secondo procedure standardizzate, negli interventi di agricoltura sociale si opera per lo più all’aperto, il contesto stesso diventa elemento dell’intervento, e secondo procedure ed attività variabili che permettono di dare risposte ai bisogni specifici dei partecipanti. In un operatore di agricoltura sociale non può mancare una buona dose di creatività, necessaria per costruire progetti nuovi in contesti nuovi, ma anche per virare in corso d’opera, per fronteggiare la variabilità emblematica della natura e della terra. Occorre molta flessibilità per adattarsi a condizioni non sempre prevedibili o controllabili, curiosità, fantasia e disponibilità a rimodulare, riformulare, ricostruire. Occorre avere coraggio e anche molta forza, non solo di fronte alla mutevolezza delle condizioni in cui ci si può trovare a lavorare o degli esiti, ma anche per accogliere, sostenere ed accompagnare i “beneficiari” dell’intervento con il loro vissuto, le loro sensazioni, le loro emozioni e i loro fallimenti. Il progetto “Orto condiviso” è andato ben oltre la coltivazione di uno spazio carcerario, ha favorito la coscienza di gruppo e la consapevolezza di quanto possa essere gratificante costruire insieme bellezza e benessere.
Partendo da tali considerazioni si spera di assistere all’implementazione di progetti che vadano nella stessa direzione, che puntino a rendere migliore il periodo di detenzione contribuendo alla rieducazione e alla risocializzazione dei detenuti incentivando esperienze e incontri capaci di incidere positivamente sul nostro habitus mentale e comportamentale. Finalità queste alle quali ogni istituto di pena dovrebbe tendere.
Francesca Raimondo
(Assistente sociale – ha curato in prima persona tutte le fasi del progetto)
(*) Vedi S. Biffi, Di alcuni manicomi di Francia, in Gazzetta medica italiana – Lombardia, Appendice psichiatrica, 1885, pag. 420)