Vuoi vedere che i molti sostenitori del cosiddetto chilometro zero, hanno trovato un aiuto insperato nel nuovo Presidente americano Donald Trump. Infatti, almeno da quanto dichiarato nella lunga ed estenuante campagna elettorale, gli Stati Uniti dell’era Trump saranno meno aperti agli scambi, meno aperti con l’Europa e conseguentemente anche con le nostre produzioni agroalimentari. Saranno pertanto le nostre esportazioni agroalimentari a risentire del cambiamento di scenario? La loro riconosciuta elevata qualità, sarà una garanzia sufficiente per conquistare il mercato americano e superare la barriera di eventuali elevati dazi doganali?
Soluzione dei problemi Circola da tempo una rappresentazione alterata dell’agricoltura italiana: una attività circoscritta al mercato di paese, al mercato locale, che diffonde la sensazione tra gli osservatori esterni, cittadini, consumatori, amministrazioni, che il chilometro zero sia la soluzione ai problemi della competitività agricola. Purtroppo, sono tanti, troppi a mio avviso, gli amministratori locali affascinati dalla “litania” del chilometro zero, forse perché è la risposta più immediata che si può dare alle istanze che provengono dal settore. Trovare la disponibilità di uno spazio per organizzare un mercato, è tutto sommato relativamente semplice. Ricordate, anche se ultimamente si sente parlare molto meno dei distributori di latte crudo alla spina, qualche anno fa erano di gran moda e pareva che dovessero essere collocati in ogni comune, per soddisfare le esigenze del consumatore consapevole. Certo a questo stato di cose contribuisce non poco la comunicazione ingannevole. Se si ripete in continuazione sui media che il consumatore italiano compra per circa il 40% a chilometro zero, alla fine poi qualcuno ci crede davvero e quello che è peggio, che si fanno politiche in questa direzione. I numeri invece sono diversi e sono quelli che il Presidente di Federalimentare (Luigi Scordamaglia) ha citato alla Assemblea nazionale Cia dello scorso 15 novembre.
Comunicazione e autarchia L’altro aspetto pericoloso, che si accompagna alla ideologia del chilometro zero, è la continua demonizzazione delle produzioni che non sono made in Italy. Tutto quello che proviene “da fuori” non è all’altezza di quanto prodotto in Italia. Ma sarà proprio così? Il continuo invito a mangiare, bere e consumare italiano, qualche conseguenza con i nostri partner commerciali sia in ambito UE, che nei confronti dei paesi terzi, siamo proprio sicuri che non l’avrà? La soluzione evidentemente sta nell’autarchia, anche se il mondo è sempre più stretto ed interconnesso. Per la verità, questa ricetta l’abbiamo già provata qualche decennio fa e sappiamo come è andata a finire. Ora nessuno vuole disconoscere e nemmeno sminuire la portata ed il ruolo della filiera corta e della vendita diretta, ma abbiamo il dovere di collocarla nella reale dimensione economica e sociale che effettivamente può esprimere. Ad esempio per i nostri canoni di consumatori abituati ad avere tutto e durante tutto l’anno, nei tempi rapidi imposti dai ritmi odierni, mal si conciliano con il Km 0.
Corta o lunga, quale filiera Filiera corta e vendita diretta, rappresentano una opportunità per la valorizzazione e sostegno alle produzioni ed all’economia locale, di cui possono beneficiare piccole aziende agricole, alle quali è precluso il rapporto con la grande distribuzione, precisando che sono favoriti determinati tipi di produzione e che gioca un ruolo non secondario, come avviene nel commercio la cosiddetta “rendita di posizione”. Alcune produzioni si prestano meglio di altre ed anche la localizzazione ha la sua importanza. Ed allora? Non credo che ci sia futuro per una economia che rinuncia al supporto dei canali distributivi tradizionali. Senza export e grande distribuzione, gran parte della nostra agricoltura sarebbe costretta a chiudere. Se guardiamo alle straordinarie produzioni del nostro paese, balza evidente ad esempio che produciamo oltre 50 milioni di ettolitri di vino, di cui gli italiani ne consumano circa la metà. Del resto cosa ne facciamo? Estirpiamo i vigneti? Se resto ad alcune colture ortive caratteristiche della nostra provincia, come il melone prodotto in Val di Cornia (in provincia di Livorno), tutti i residenti, neonati compresi, dovrebbero consumare circa 0,5 quintali di prodotto pro capite, ma in soli tre mesi perché deperibile. E’ possibile?
Sguardo all’export La forte vocazione all’export dei nostri prodotti agroalimentari (vino, salumi, formaggi, ortofrutta, olio) evidenzia la necessità di spostare sempre di più l’attenzione degli operatori sui mercati internazionali. Il compianto Presidente Cia Politi diceva che una domanda dobbiamo porcela: difesa del made in Italy o proiezione internazionale del made in Italy? Diventa una esigenza l’intesa contrattuale tra agricoltura, industria e commercio. La strada da percorrere per migliorare le condizioni di reddito degli agricoltori, valorizzare la produzione agricola e rendere più efficiente il mercato sta nell’interprofessione.
Non solo nicchia L’agricoltura italiana è qualcosa di più ingombrante delle sole produzioni di nicchia. Per aumentare il potere contrattuale degli agricoltori deve essere rilanciata la funzione commerciale dell’associazionismo e della cooperazione. Deve essere percorsa ogni strada che permetta quella reale concentrazione dell’offerta da tutti auspicata, ma che nella realtà non si concretizza. Va resa chiara la convenienza dell’impresa agricola a partecipare ed investire nelle realtà associate, che devono diventare il loro strumento di mercato. Abbiamo bisogno di accordi commerciali, per le caratteristiche della nostra agricoltura, non alzare barriere, che in primo luogo si ritorcerebbero contro di noi. Che si debbano fare più controlli sulle merci importate e rispedire al mittente quelle che violino le regolamentazioni stabilite dai rapporti commerciali internazionali, è cosa legittima. Ma cullarsi nell’illusione del potere risolutivo del chilometro zero, questo oltre che sbagliato e pericoloso.