«Sugli scaffali niente più latte di soia, caciotta di tofu o yogurt vegetale. La sentenza di oggi della Corte di Giustizia europea è un primo importante passo sulla strada della trasparenza, nell’interesse dei produttori e dei consumatori”. Lo ha detto Raffaele Maiorano, presidente dei giovani di Confagricoltura, alla notizia della decisione dell’Istituzione Ue sulla denominazione «latte» che diventa riferibile unicamente al latte di origine animale».
«Già a livello nazionale – ha continuato il presidente dei giovani di Confagricoltura – avevamo da tempo invocato chiarezza la questione “milk e meat sounding”. Da oggi le denominazioni ingannevoli non potranno più essere legittimamente impiegate per designare un prodotto puramente vegetale perché la denominazione «latte», come del resto sarebbe giusto, è riferibile unicamente a quella di origine animale, a meno che il prodotto non figuri nell’elenco delle eccezioni, circostanza che non ricorre ad esempio nel caso né della soia né del tofu».
Confagricoltura si è sempre battuta per eliminare denominazioni ingannevoli e per norme di etichettatura semplici e chiare. «Non è giusto – ha concluso Raffaele Maiorano – utilizzare nomi conosciuti per indicare prodotti che latte o carne non ne contengono e logica vorrebbe che lo stesso principio fosse applicabile anche a tutti i prodotti la cui denominazione è riferibile alla loro origine animale, eliminando definizioni improprie come salame vegano, spezzatino di soia, bistecca di tofu, hamburger di soia o Bresaola vegana».
Il commento di Paolo De Castro «I prodotti puramente vegetali non possono, in linea di principio, essere commercializzati con denominazioni, come ‘latte’, ‘crema di latte’ o ‘panna’, ‘burro’, ‘formaggio’ e ‘yogurt’, che il diritto dell’Unione riserva ai prodotti di origine animale. Con questa sentenza – ha detto De Castro – , la Corte fa un passo decisivo contro l’uso scorretto delle denominazioni. Speriamo che al più presto sia possibile predisporre una normativa europea per salvaguardare le denominazioni dei prodotti a base di carne, come ‘bresaola’ o ‘mortadella’. La commercializzazione di beni che si richiamano in modo improprio a prodotti universalmente conosciuti come sinonimo di qualità, genuinità e provenienza localizzata è molto frequente nel mercato agroalimentare e appare doveroso domandarsi se sia giusto orientare l’acquisto dei consumatori di questi prodotti, aventi determinate caratteristiche (nutrizionali e non solo), denominati però in modo scorretto».