Varietà e qualità: sono queste le parole d’ordine che emergono dagli appuntamenti dedicati al tema Allevamento di qualità nei giorni di Terra Madre Salone del Gusto 2018, quattro incontri ospitati nelle aree #foodforchange Slow Meat e Slow Fish. Varietà di specie e di razze. Differenze nelle tecniche di allevamento e di lavorazione delle carni. Ricchezza culturale e ambientale. Questi sono gli aspetti da tutelare per ottenere cibi di qualità e avere carne e pesce che siano buoni, puliti, giusti e sani.
Pescatori, allevatori, delegati ed esperti da ogni parte del mondo sono intervenuti per raccontare la loro esperienza, dare il loro contributo e trovare insieme soluzioni alternative allo sfruttamento intensivo praticato negli allevamenti animali. “Meno carne, ma di migliore qualità” è il monito che gridano all’unisono. E il professore Achille Schiavone, del dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, è d’accordo e spiega: «Se è vero che unpollo in allevamento intensivo viene macellato dopo 30-35 giorni mentre negli allevamenti che seguono i criteri “slow” vive dai cinque ai sei mesi; e se è vero che una gallina ovaiola arriva a produrre anche 300 uova in un anno in un allevamento intensivo mentre una “slow” ne produce 150-200 al massimo, è anche vero che la carne e le uova di polli e galline che sono lasciati liberi di razzolare sono senza dubbio più buone, non solo dal punto di vista organolettico ma anche da quello nutritivo. Infatti, quando gli animali non sono costretti in gabbia, si muovono e mangiano erba e lombrichi e non solo mangime, e questo implica un maggiore apporto di vitamina E e altri nutrienti che finiscono poi nella carne e nelle uova».
Inoltre, Caroline McCann, consigliera di Slow Food e responsabile del progetto New Harmony Farm in Sud Africa, ricorda che «bisogna ottenere una carne che non sia solo buona per chi la mangia ma anche per l’ambiente» sollevando così una questione fondamentale nel discorso sul cambiamento climatico. L’inquinamento derivante dagli allevamenti intensivi, infatti, è tra i più impattanti sul clima. Per produrre un chilo di carne di manzo industriale si immettono nell’atmosfera 36,4 chili di anidride carbonica e si consumano circa 15.500 litri d’acqua e 7 chili di alimenti vegetali.
Ma come invertire la rotta? Come contrastare lo sfruttamento dei suoli e degli animali e preservare il pianeta? Secondo Sergio Capaldo, veterinario e referente del Presidio della razza piemontese, «sono l’uomo e l’animale insieme che possono salvare il territorio e l’ambiente – e aggiunge – l’obiettivo è insegnare a tutti a fare un’agricoltura di qualità perché è proprio l’agricoltura il punto di partenza. Bisogna imparare come lavorare la terra eliminando la concimazione chimica esasperata. Le piante possono crescere anche con l’idroponico ma l’idroponico non è cibo. Non possiamo nutrirci di formule chimiche e matematiche. È importante comprendere che l’allevamento dell’animale ha una ricaduta sociale enorme, perché permette di coltivare la terra in armonia con l’ambiente».
Non sono da meno gli allevamenti di pesci, a cui è stato dedicato il Forum Salmoni come polli. Il rapido progresso dell’acquacoltura intensiva delle specie ad alto valore commerciale, come salmone e gamberetti, ha già provocato un degrado spaventoso dell’ambiente e lo spostamento di molte popolazioni di contadini e pescatori locali, che non potevano più continuare la propria attività. A questo proposito interviene l’islandese Dominique Pledel Jonsson, presidente di Slow Food Reykjavikche afferma: «L’acquacoltura è come l’allevamento intensivo. I salmoni ad esempio vengono nutriti con la farina di pesce e il 30% degli animali allevati in genere muore, una percentuale altissima. Ci dobbiamo chiedere, quindi, quale sarà il futuro dell’acquacoltura e come fare per renderla sostenibile».
Una possibile alternativa arriva da Kjersti Sandvik, giornalista norvegese e autrice di Under the surface. A dirty story about the Norwegian salmon industry che propone la diffusione di specie meno conosciute e il consumo di alghe. Perché, spiega la giornalista, «certamente è giusto sfamare una popolazione che cresce esponenzialmente con cibo proveniente dagli oceani ma, sicuramente, non può essere un pesce con i costi e l’impatto ambientale del salmone la risposta».
Tornando alla terra ferma, le soluzioni comunque ci sono e le molte esperienze provenienti da ogni angolo del mondo lo testimoniano.
Ad esempio l’allevatore giapponese Kazunori Matsumoto racconta l’allevamento della pregiata razza bovina matsusaka, attività portata avanti dalla sua famiglia da generazioni che adesso sta trasferendo alla giovane figlia. Qui gli animali vengono alimentati a mano, portati al pascolo ogni giorno in modo che possano muoversi, respirare aria, cibarsi di erba fresca e bere acqua di fonte. In questo modo Kazunori e la sua famiglia sono convinti che la carne ne guadagni in gusto e consistenza. Inoltre, sottolinea che la sua attività non è legata solo a scopi economici ma è importante per lui tramandare la cultura e la tradizione giapponese, motivo per cui è giunto qui a Torino dall’altra parte del mondo.
Mentre Russ Carrington, presidente di Rural Youth Europe, racconta dell’associazione di cui è direttore generale. Con il progetto Pasture-Fed Livestock Association gli animali vengono nutriti solo con erba che trovano nei pascoli della campagna britannica. In questo modo il vantaggio è doppio perché la carne ne guadagna in qualità, mentre la biodiversità nei pascoli è garantita.
Infine Jacopo Goracci, zootecnico, allevatore e referente del Presidio della razza maremmana, conclude affermando l’importanza di investire in una cultura che accompagni giorno per giorno il consumatore nell’acquisto di carne di qualità.