«I vini ottenuti sono di notevole complessità aromatica, intensità e grande longevità». A dirlo è Daniele Accordini, che non sta parlando, però, dell’ultima novità enologica presentata da Cantina Valpolicella Negrar, di cui è dg ed enologo. Ma di una eccezionale sperimentazione condotta dalla cantina cooperativa negrarese da due anni a questa parte su invito del veronese Lorenzo Simeoni, sommelier, membro dell’Accademia dell’Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana per i suoi studi sui vini passiti. Obiettivo comune di entrambi: approfondire la tecnica usata per produrre l’Acinatico, il vino amato dai re – Cassiodoro nel VI sec. d.C. lo richiedeva in una lettera al canonicarius delle Venetiae per rifornire la corte ravennate dell’ostrogoto Teodorico, re d’Italia dal 493 al 526 – e antenato del Recioto, vino del cuore della Valpolicella. I risultati sono stati raccontati – e degustati – in occasione del convegno “Dall’Acinatico al Recioto”, che si è svolto nei giorni scorsi nella sala Domìni Veneti della cantina e che ha visto tra i relatori, oltre agli stessi Accordini e Simeoni, Attilio Scienza, già docente di viticoltura all’Università di Milano.
Il progetto di ricerca. Simeoni ha spiegato: «Non esiste un testo antico in cui sia descritto in modo chiaro e preciso come l’Acinatico fosse vinificato, ma ci sono numerose descrizioni fatte da personaggi storici da cui si possono desumerne i processi di vinificazione. Nel 1500 questo vino era prodotto a Verona, con tutta probabilità in modo diverso da come facevano gli antichi Romani, che utilizzavano una tecnica di appassimento estremo, sgranando l’uva acino per acino, da qui il nome Acinatico. Sembra, in ogni caso, che fosse ottenuto attraverso un procedimento che implicava la macerazione carbonica”. Dunque, le prove sperimentali – in tutto 4, più un campione di confronto di Recioto vinificato in modo tradizionale – sono state avviate nel 2016 utilizzando questa tecnica, “non codificata nel panorama enologico per la vinificazione di uve rosse passite”, ha precisato Accordini. Per due di esse, è stata fatta la rimozione manuale del raspo senza staccare l’acino dal pedicello, per le altre due è stato messo il grappolo intero; in tutte è stato dosato in diversa quantità il mosto starter. Le uve sono state vinificate in assenza di ossigeno e senza anidride solforosa. Il vino ottenuto è stato conservato in damigiana per due anni e mezzo alla temperatura costante di 15 gradi. Tra le quattro prove degustate, risultate essere propriamente dei vini dolci rossi passiti assimilabili al Recioto, la più equlibrata è stata quella in cui è stato usato il grappolo intero con il mosto starter a coprire gli acini, che ha dato un vino Acinatico dalle note di alcol sotto spirito, noce moscata, madorla amara e caffè. “L’Acinatico era una bevanda dagli importanti aspetti benefici, senza anidride solforosa, di alto valore energetico per la presenza di zuccheri e con la presenza, oggi lo sappiamo, di Resveratrolo e Botriticina. Quella che abbiamo attuato è un’enologia che ci riporta indietro nel tempo di circa 2 mila anni, ma di grande efficacia e qualità, in cui si possono osservare alcune interessanti pratiche che vanno approfondite per conoscerne bene le potenzialità. Gli antichi Romani ponevano grande cura e attenzione nella coltivazione delle uve e nelle tecniche di produzione del vino. E’ dunque, questa, una testimonianza che ci deve far comprendere la profonda tradizione vinicola da cui proveniamo e, nel contempo, stimolare a proseguire nel miglioramento della produzione di Recioto e Amarone, in modo da rendere questo primato storico sempre più attuale e proiettato nel futuro», ha chiosato Accordini.
Forma, struttura, dimensioni, materiali e localizzazione dei palmenti (le antiche vasche di pigiatura), indizi fondamentali per ricostruire la cultura del vino di un territorio. Nel suo intervento, il professor Attilio Scienza ha evidenziato come la storia della viticoltura possa essere raccontata attraverso i palmenti ed i torchi di pigiatura. «La diffusione della coltivazione della vite verso ambiti più settentrionali, contraddistinti spesso da cambiamenti climatici sfavorevoli, accompagnati dalla necessità di produrre maggiori quantità di vino per lo sviluppo delle comunità da agricole ad artigianali, ha indotto profonde modifiche nelle modalità di pigiatura: dalle strutture all’aperto si è passati alla copertura dei palmenti fino alla creazione delle camere di pigiatura e all’utilizzo di metodi più rapidi per l’esaurimento del pigiato attraverso sistemi di pressione. Accanto ai nomi dei luoghi ed alla loro ubicazione geografica, oggi potremmo aggiungere i vitigni ed i palmenti, una sorta di fossili-guida che ci aiutano a ricostruire la storia viticola di un luogo e possono diventare il filo conduttore dello storytelling del vino».
Giudici europei per lo stop al genoma editing Essendo Scienza una dei massimi esperti di genoma editing, inevitabile la richiesta di un parere in merito al pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha stabilito che gli organismi ottenuti mediante mutagenesi, ovvero la modifica del Dna di un organismo vivente senza l’introduzione di materiale genetico proveniente da un’altra specie, sono Ogm (Organismi geneticamente modificati) “nei limiti in cui le tecniche e i metodi di mutagenesi modificano il materiale genetico di un organismo secondo modalità che non si realizzano naturalmente”, mettendo, di fatto, uno stop al miglioramento genetico attraverso tecniche come la cisgenetica. «Si tratta di una decisione formale e non definitiva – ha commentato il professore – sarà poi il Parlamento europeo a doversi esprimere e, da quanto mi risulta, i pareri dei parlamentari di diversi Paesi non sono vicini a quelli della Corte di Giustizia. Siamo, però, vicini alle prossime elezioni europee e anche dopo maggio 2019, dubito che la questione sarà trattata subito dai futuri neoparlamentari. Ma, ribadisco, la cisgenesi non è una tecnica Ogm, in quanto opera solo sui geni interni e il Dna rimane immutato. Solo nel caso della vitis vinifera ci sono 500 geni su cui possiamo andare a lavorare, che si possono esprimere e che magari non lo hanno ancora fatto. Con i cambiamenti climatici in atto, l’unica soluzione percorribile è quella del genoma editing».