Tempo di Natale, tempo di tradizioni e dall’antica e saggia cultura contadina, da sempre icona degli usi e costumi senesi, giunge ai giorni nostri una delle usanze più ricche per le nostre tavole ma più povere per la sua origine. Nelle campagne di tutta la provincia, infatti, nel periodo che intercorre fra Natale e la Befana, la nebbia mattutina si mescola al vapore di tinozze di acqua calda e l’odore delle fredde brinate invernali si unisce al caldo profumo della carne bollita insieme alle spezie.
E’ questo il momento dove intere famiglie di contadini si riuniscono – o meglio si riunivano – per ammazzare e lavorare il maiale. Una tradizione questa che ormai è rimasta tale solo in pochissimi casolari sparsi nelle nostre campagne ma che un tempo ha ricoperto un ruolo di primaria importanza legato ad una sostanziale necessità alimentare. E ancora una volta, là dove necessità è stata virtù, sono nati dalla sapiente mano del contadino alcuni fra i piatti che contraddistinguono la tradizione culinaria natalizia delle nostre zone. Non c’è dunque da meravigliarsi se nelle ricche tavole di Natale, accanto ai celebri panforte e ricciarelli, compare anche un piatto dall’apparenza ingannevole ma dal gusto inconfondibile. E’ il migliaccio, nient’altro che spezie, biscotti sbriciolati, canditi, sangue del maiale appena ucciso, tutto condito con un lieve strato di zucchero a velo. Ma è questo solo il primo frutto della tradizione con l’uccisione e la lavorazione del maiale; lungo è ancora il percorso che porterà a prosciutto, salami e salsicce, senza dimenticare piatti tipici come tegamata o fegatelli.
Ed allora è proprio questo il momento di abbandonare i regali sotto l’albero ed inoltrarsi nelle campagne per scoprire i segreti di una tradizione, l’uccisione del maiale, che nelle terre senesi è sinonimo di gusto ma anche di cultura. “Quando l’animale muore, mi raccomando, deve essere il più tranquillo possibile e non deve soffrire altrimenti la carne può risentirne in qualità“.
E’ questo il primo segreto che si riesce a catturare dalle parole di un anziano norcino o, che dir si voglia, ‘ammazzino’, ‘ammazzamaiali’ o ‘accomodamaiali’ a seconda della zona. “Il maiale ideale per l’uccisione non supera i tredici mesi di età e non pesa più di due quintali, altrimenti poi la carne è troppo grassa”. Queste sono invece le parole di un allevatore che, nel pronunciarle, fa capire esattamente il valore di un segreto e quasi timidamente ti fa dono di una cosa a cui tiene in maniera speciale. Il primo giorno di lavorazione del maiale procede solamente con l’uccisione e la spezzatura in sette parti dell’animale: testa, spalle, prosciutti e ‘mezzane’.
E’ invece il secondo giorno che, secondo tradizione, la famiglia intera si ritrova per lavorare sapientemente, ognuno con le proprie mansioni, le carni ottenute. Solo a sera si potrà mettere ad asciugare i salumi e, come tradizione vuole, sedersi a tavola tutti insieme per raccontarsi le affascinanti storie frutto del mix fra vita e leggenda, e godere al contempo delle prime gioie per il palato. Ma tanti altri sono i segreti racchiusi in due giorni di lavoro e, soprattutto, enorme è il loro valore contraddistinto da un forte legame con la tradizione ed una cultura nascosta a volte da mani rugose e parole tanto semplici quanto ricche di significato.