di Marco Ginanneschi – Accademia dei Georgofili
La produzione e il consumo di cibo non sono “immuni” dal fenomeno pandemico Covid-19. Potremmo essere indotti a pensarlo, visto che neppure con il prolungarsi della quarantena si sono registrate interruzioni nella catena degli approvvigionamenti alimentari.
Ci sono tante vittime e viviamo limitazioni delle libertà individuali paragonabili a tempi di guerra ma nell’isolamento il cibo è diventato la nostra ossessione positiva, una sorta di valvola di sfogo autorizzata. Nella confusione che questa situazione ingenera, anche chi opera professionalmente nel settore finisce col pensare per compartimenti: l’agricoltura è preoccupata dalla mancanza di operai per il raccolto, l’industria alimentare dagli accresciuti standard di sicurezza del lavoro, la grande distribuzione dalla delicatezza sociale del suo ruolo, la ristorazione dai costi che corrono a fronte di entrate svanite.
Eppure guardare oltre il breve termine è importante: per prendere decisioni strategiche, per fare nuovi investimenti, per adattarsi a una lunga convivenza con la minaccia pandemica, per innovare. Poiché non ci troviamo in una situazione di continuità con il passato, neppure possiamo affidarci all’esperienza: la minaccia pandemica Covid-19 è un evento disruptive, come ce ne sono stati pochi altri nella storia dell’umanità. Qualunque azione decidiamo di intraprendere, abbiamo necessità di dotarci preliminarmente di un piano e ancora prima di prefigurarci uno scenario. Che ipotesi possiamo formulare in merito all’influenza del fenomeno pandemico sul futuro del cibo?
Vengono oggi in soccorso della pianificazione strategica una serie di tecniche provenienti da più campi: le mappe mentali dagli studi cognitivi, i megatrend dagli studi sul futuro, seminari e indagini dalle scienze sociali. In attesa che si producano studi più approfonditi, può essere d’aiuto guardare alla realtà in divenire (da uno stato pre-Covid a uno stato post-Covid) da un altro punto di osservazione: quello dell’antropologia. Utilizzando la “lanterna dell’antropologo” (1), cercheremo qui di illuminare (con brevi flash) le tante valenze culturali del concetto di cibo per immaginare quindi le possibili conseguenze di Covid-19. Nel far ciò seguiremo una classificazione delle principali definizioni, elaborata in ambito antropologico da Mintz e Dubois e concepita per un uso interdisciplinare (2).
Conviene iniziare considerando il cibo in termini di sicurezza alimentare, ovvero risorsa accessibile, mezzo di sostentamento e diritto umano, sancito anche dalla Dichiarazione Universale del 1948. La sfida per l’umanità resta quella indicata nello slogan di Expo 2015: “nutrire il pianeta” ovvero soddisfare la domanda di cibo di 8,5 miliardi di esseri umani nel 2030 e di 9,7 miliardi nel 2050 (UN, World Population Prospects, 2019) (3). In un importante documento di programma del 2017, la FAO si dichiarava ottimista quanto alla possibilità di raggiungere questo obiettivo, a condizione però di poter contare su “sistemi alimentari più organizzati e verticalmente coordinati” (4). Covid-19, un evento pandemico che ha già comportato 2,4 milioni di contagi confermati e 163.000 decessi in tutto il mondo (WHO, 21 aprile 2020), pone tuttavia alcune incognite su questo disegno. Nel caso in cui dovesse estendersi nei paesi più poveri al mondo, potrebbero prodursi gravi carestie e le vittime diventare milioni. Anche nei paesi più sviluppati, gli ostacoli alla circolazione delle persone possono mettere a repentaglio i raccolti, mentre la chiusura dei ristoranti penalizza i prodotti freschi e quelli ad alto valore aggiunto, spesso provenienti da filiere corte. Il quadro non sarebbe completo senza considerare un altro aspetto della “sicurezza alimentare”. Date le crescenti difficoltà ad approvvigionarsi dall’estero (la globalizzazione è frenata in tutte le sue componenti), le materie prime alimentari potrebbero recuperare una valenza strategica e politica e gli stati nazionali rivendicarne la sovranità, non tanto per tutelare i piccoli coltivatori quanto per difendere il più ampio interesse nazionale, alimentando di fatto nuove forme di sovranismo alimentare (5). Gli appelli a consumare i prodotti nazionali a discapito di quelli esteri si stanno già moltiplicando, anche all’interno del mercato unico dell’Unione Europea. Infine, il diffondersi del protezionismo potrebbe avere conseguenze negative per la capacità produttiva totale (e quindi specialmente per la parte economicamente più svantaggiata della popolazione mondiale).
Esaminare il cibo come specchio della società è un secondo importante filtro di analisi. Negli ultimi anni i cambiamenti sociali che il cibo ha incorporato sono stati innumerevoli: la tendenza a consumare i pasti fuori casa, il boom del fast food, la produzione di massa, la diffusione delle monoporzioni, il cibo pronto, il cibo come commodity, il cibo di marca. Covid-19 è in grado di porre una sfida a questa dimensione degli alimenti. Le misure di distanziamento renderanno le attività di ristorazione e consumo collettivo più problematiche e costose; potrebbero risultarne frenati anche cerimonie, banchetti, catering, mense. Non è escluso che si consolidi la tendenza a preparare i pasti in casa, per piccoli gruppi e per singoli individui, riducendo il consumo di cibi pronti. Potrebbe essere una rivoluzione in termini di fabbisogno di ingredienti, packaging, modalità e luogo di consumo e modalità di acquisto degli alimenti. A fronte di consumi Ho.Re.Ca decisamente inferiori, il permanere di forme di distanziamento sociale e smart working ben oltre l’attuale emergenza spingeranno l’acquisto online di cibo, dal crudo al pronto. Ma lo stesso trend di crescita delle megalopoli potrebbe conoscere un rallentamento, con un ritorno alla vita in campagna. In conclusione, è utile ricordare che le guerre hanno spesso comportato cambiamenti importanti e duraturi nei consumi alimentari. E l’impatto economico di Covid-19, con il passare del tempo, si avvicina sempre più a quello di un conflitto bellico.
Anche l’aspetto del cibo come identità, in quanto segno di appartenenza a gruppi o tribù alimentari e connotato etnico, potrebbe incorrere in una trasformazione. La rinascita dei confini e le limitazioni alla circolazione delle persone per motivi sanitari e di salute pubblica e il forte rallentamento del turismo proveniente dall’estero potrebbero favorire l’etnocentrismo (la preferenza accordata ai cibi nazionali) e il sovranismo alimentare (autarchia produttiva). Le filiere di produzione, divenute lunghe per effetto della globalizzazione, potrebbero tornare ad accorciarsi. D’altra parte, i prodotti tradizionali e a indicazione di origine protetta (DOP e IGP) quasi certamente perderanno una leva di sviluppo nelle aeree in cui il circolo virtuoso turismo estero – gastronomia – export agroalimentare giocava un ruolo importante.
Anche considerare la valenza rituale del cibo può illuminarci. Il rito, atto ripetuto di avvicinamento al sacro o al magico (6), è sopravvissuto sottotraccia nella nostra convivialità sempre più laica ma Covid-19 può portare da latenza a tendenza più di un fenomeno di questo tipo. Si pensi al diffondersi in tutto il mondo di pranzi a distanza e di aperitivi condivisi su nuovi social media, alle app di WeParty, Zoom e Jitsi Meet scaricate milioni di volte durante la quarantena. Questo fenomeno di convivialità virtuale ha innegabilmente una componente escatologica: davanti alla minaccia della morte e all’isolamento fisico, l’uomo crea un rito salvifico ristabilendo con nuovi mezzi la propria identità rispetto agli altri, il senso di appartenenza a un gruppo e l’ordine sociale. Gli acquisti nella grande distribuzione si stanno già adeguando, con l’affermazione di nuovi trend di consumo. L’eredità di covid-19 un giorno sarà misurabile anche in questi termini.
In conclusione, da queste sintetiche e assolutamente preliminari osservazioni ispirate dall’approccio antropologico si deduce che la pandemia Covid-19 sarà causa di profonde trasformazioni nel modo in cui il cibo si produce, si distribuisce, si consuma. La diffusione a livello internazionale del distanziamento sociale sta trasformando il morbo in malattia sociale, colpendo al cuore il cibo come prodotto culturale. La febbre da Coronavirus in un certo senso è la febbre stessa del “pianeta (troppo) umano (7)”.
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1 Sahlins, M. (2011), La lanterna dell’antropologo. Edizioni Medusa: Milano.
2 Mintz, S., Du Bois, C. (2002), The anthropology of food and eating. Annual Review of Anthropology, 31, pp. 99–119.
3 Godfray, H.C.J., Beddington, J.R., Crute, I.R., Haddad, L., Lawrence, D., Muir, J.F., Pretty, J., Robinson, S., Thomas, S.M., and Toulmin, C. (2010), Food security: The challenge of feeding 9 billion people. Science, 327, 812–818.
4 FAO (2017), The future of food and agriculture, Trends and Challenges. FAO: Rome.
5 Certomà, C. (2010), Diritto al Cibo, Sicurezza Alimentare, Sovranità Alimentare, Rivista di Diritto Alimentare, IV (2).
6 De Martino, E. (1948), Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi: Torino, 1948.
7 Lewis S.L., Maslin M.A. (2019), Il pianeta umano. Einaudi: Torino.