Un oste, custode di vecchie ricette di famiglia, mi fa dono di una di esse: la salsa di Agreste, altro non è che il nome usato nell’aretino per chiamare l’Agresto, un condimento ormai caduto in disuso da secoli sopravvissuto nelle tavole contadine per accompagnare bolliti e arrosti, recentemente riscoperto e reintrodotto nei menù di alcuni ristoranti, soprattutto in Toscana.
E’ un prodotto che l’Arsia Regione Toscana aveva inserito nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali della Toscana, con il nome di Agresto di San Miniato oppure di
Aceto d’agresto sanminiatese. Infatti, proprio a San M iniato, cittadina in provincia di Pisa, la produzione più importante, alcuni quintali (circa 5) annui.
L ‘Agresto era già conosciuto in epoca Romana, ne parla anche Virgilio, che descrive come fosse usanza cuocere il mosto d’uva per poi raffreddarlo e conservarlo in botte per un anno per poi essere utilizzato come condimento. Un vasto utilizzo nel Medioevo sia come condimento, sia come ingrediente per la preparazione di bevande rinfrescanti, la sua caratteristica principale, l’acidità, tende a far salivare la lingua, di conseguenza sgrassa, pulisce il cavo orale dagli intingoli, dai fritti e dai grassi tipici delle tavole opulente dei nobili e rimane di gran moda fino a tutto il tardo Medioevo per poi venire soppiantato nel Rinascimento dall’aceto balsamico. Si fanno strada i gusti agrodolci a discapito di quelli più acidi ed un condimento con più di mille anni di storia finisce nell’oblio ed arriva ai giorni nostri grazie alla cultura contadina.
La parsimonia è una delle caratteristiche dell’economia domestica ma anche della conduzione agronomica contadina, la campagna impone di massimizzare tutti gli sforzi fatti anche quelli che a prima vista sembrerebbero stati improduttivi. Durante il periodo della vendemmia venivano raccolte le femminelle dei grappoli d’uva che lungo i filari delle viti non si erano maturati, altre venivano lasciate nei filari, dove il cacciatore avrebbe aspettato il tordo. L’uva raccolta viene lasciata appassire per una ventina di giorni e trattata con estrema delicatezza, pressature soffici che un tempo venivano eseguite con i piedi, il liquido ottenuto viene travasato e posto a bollire in grandi pentole, con il calore perderà la parte acquosa fino ad ottenere uno sciroppo a cui verranno aggiunti: dragoncello, aglio, miele e cannella, a questo punto sarà necessario terminare la preparazione con una breve cottura accompagnata dall’aceto d’ uva. Una volta raffreddato è già possibile aromatizzarlo anche se un passaggio in piccole botti di legno aggiungerà complessità ed uniformità al sapore.
Si accompagna bene ai bolliti, alla cacciagione, al maiale, al pesce di lago e alla verdura cotta. Va usato con estrema parsimonia: i suoi punti forti sono l’acidità e l’aromaticità. Acidità, quindi freschezza, che invita il commensale a pregustarsi i bocconi a venire e l’aromaticità che non stanca la bocca, combinata gli ingredienti del piatto produrrà una serie infinita di combinazioni gustative. Per tutte queste caratteristiche ne viene raccomandato un uso parsimonioso per non perdere l’equilibrio del piatto.