di ALBERTO GUIDORZI – Agrarian Sciences
ROMA – Nel 2019-2020 l’Ucraina esportava 21 milioni di tonnellate di grano, 34 milioni di tonnellate di cereali foraggeri e 10 milioni di tonnellate di semi oleosi e panelli proteici.
Queste quantità sul mercato sono già in gran parte mancate ma ne mancheranno ancora 20 milioni di t entro il luglio prossimo, cioè prima del nuovo raccolto.
Tutto ciò ad esempio ha portato i prezzi del grano e del colza rispettivamente a 400 €/t e 1000 €/t. Si tenga conto che per scarsità di scorte si era in presenza di prezzi record anche prima della guerra in Ucraina e in più questi sono aumentati ulteriormente di 100 €/t per il grano e ben 400 €/t per il colza.Dunque il deficit si aggrava ed in particolare per il frumento esso è ormai drammatico, Inoltre esso potrà variare solo quando avremo valutato il raccolto del 2023. Da notare che i futures ne tengono già conto: il grano con consegna 2023 è già quotato 362 €/t ossia un 20% in più del più alto livello storico.
Quali le conseguenze? Dei prezzi superiori ai 300 €/t potrebbero provocare ben 100 milioni in più di persone affamate, calcolo per nulla irreale perché la crisi alimentare del 2007/2008 di affamati in più ne ha creato 75 milioni.
Infatti si è innestato un meccanismo infernale per il quale i governi dei paesi poveri non hanno i soldi sia per acquistare e poi per calmierare i prezzi interni, in più molti paesi esportatori sono indotti a limitare le esportazioni. Se noi consideriamo che sono considerati sottoalimentati tutti quelli che non riescono a consumare 2100 cal/giorno significa che i 700 g/giorno di grano che assicurerebbero le 2100 calorie ridurrebbero di ¼ il potere d’acquisto dei 700 milioni di abitanti della terra che sono obbligati a vivere con 2,25 $/giorno. Se poi vi aggiungiamo gli aumenti dei costi della vita a causa della crisi energetica vediamo che a queste persone non rimane che solo 1 $/giorno per abitare, alloggiare e curarsi.
Cosa fare per correre ai ripari già nel 2022 e nel 2023
- Se consideriamo che nell’UE si usano 12 milioni di t di mais e grano e 5 milioni di olio di colza per produrre carburante, il limitare tali usi potrebbe contribuire ad aumentare le disponibilità alimentari. Forse non è possibile farlo da subito, ma si può programmare il tutto per il 2023, anche perché una parte della superficie a mais potrebbe essere investita a grano quest’autunno.
- In secondo luogo grano e mais sono usati anche per produrre biogas e se si limita da subito questo uso potremmo dirottare a produzione di granella una parte del grano seminato nel 2021 e aumentare le superfici a grano nel 2023. Certo a sentire queste proposte, considerate non più tardi di qualche anno fa come una importante e duratura fonte di energie rinnovabili da implementare, gli ambientalisti radicali farà loro accapponare la pelle e quindi vi è da aspettarsi che propongano in alternativa:
- Limitare il numero degli animali allevati, solo che questo consiglio non tiene conto che per realizzarlo occorrono tempi lunghi in quanto si potrà chiedere ad un allevatore di maiali come minimo di portare a termine ciò che ha in essere: – non si potrà chiedere ad un allevatore di uccidere una scrofa gravida che partorirà fra 3 o 4 mesi; – al massimo accetterà di farlo quando la scrofa si sarà sgravidata; – solo che avendo dei maialini nati l’allevatore pretenderà di compiere il ciclo d’ingrasso che dura sei mesi; – solo dopo rivedrà i suoi piani di allevamento, ma comunque pretenderà indennizzi. Salvo, poi, che i prezzi dei mangimi salgano al punto da rendere antieconomico l’ingrasso, ora in questo scenario si avrà certamente una diminuzione subitanea di animali allevati, ma anche il fallimento di molti allevamenti. Scenario non proprio idilliaco.
- La decisione si allungherebbe ancora di più nel caso delle vacche che hanno una gestazione di 9 mesi e producono latte dopo la gestazione per altri 10 mesi; anche qui l’allevatore pretenderà di finire il ciclo e di riparlarne dopo, sempre se indennizzato. Senza contare poi che se i consumatori non adeguano i loro consumi di carne latte e latticini, capiterà che aumenteranno le importazioni, ma allora ciò che risparmiamo noi in mangimi verrà consumato da altri che aumenteranno le produzioni di carne per sostenere delle esportazioni lucrose.
- Altri propongono di aumentare l’IVA sui prodotti animali in modo che cali il consumo, ma socialmente ciò è inaccettabile in quanto i più toccati saranno coloro che hanno meno risorse, cioè i più poveri. Il mangiare meno carne e latticini non può essere, infatti, coercitivo, ma volontario, il che, però, comporterebbe più tempo per ottenere i risparmi nei consumi di cereali; tempo, però, che noi non abbiamo. Non è ugualmente una misura ad effetto subitaneo l’auspicato minore spreco alimentare.
- Le superfici che abbiamo ipotizzato poter recuperare sopra non sempre sono adatte a produrre grano panificabile. Si ricorda che la panificazione manuale poteva permettere di usare grani con tassi di proteine limitati, mentre la panificazione meccanica impone tassi di proteine più elevati e quindi i terreni che possono produrre grano con queste caratteristiche non sono più tutti i terreni in cui prima si seminava grano, necessariamente quindi saranno superfici minori. Infatti saranno superfici già abbandonate dal grano e già dirottate verso coltivazioni più adattabili a terreni di minore fertilità o quasi marginali. A questo punto però non si può non prendere in considerazione le disposizioni comunitarie della “buone condizioni agricole e ambientali – BCAA” inserite nella PAC che impediscono i ristoppi e le concimazioni azotate nei terreni dilavabili. Ora, appunto per raggiungere lo scopo di aumentare le disponibilità di grano nel 2023, potrebbe essere necessario ristoppiare e concimare con azoto laddove è stato proibito.
- Ecco che a questo punto il mondo del biologico, di fronte alla scarsità ed onerosità nel poter concimare, prende la palla al balzo per proporre di produrre grano biologico.
- Essi ancora una volta dimenticano che il frumento è la pianta più penalizzata qualitativamente e quantitativamente dalla produzione con metodo biologico. Infatti il grano è una coltivazione che è meno inserita percentualmente nelle rotazioni biologiche rispetto alle convenzionali, appunto per questo suo dover “pagare caro” la minore fertilità. Ora ci si chiede come si può ipotizzare di avere a disposizione più grano se un ettaro produce meno e il grano ritorna nello stesso campo dopo un tempo più lungo? Il ragionamento del biologico resta attraente solo per un’opinione pubblica che non sa vedere i fatti oltre le parole. Si sa che una coltivazione di una pianta proteica apporta dalle 60 alle 90 unità di N/ha, mentre per ottenere una produzione che permetta un reddito, cioè di circa 8/9 t/ha di grano occorre somministrare dalle 150 alle 200 unità di N/ha, vale a dire che queste unità concimanti la coltura proteica ce le dà solo coltivando lo steso ettaro per tre anni. In convenzionale con adeguata concimazione, invece possiamo far ritornare il grano sullo stesso terreno già al terzo anno.
Insomma come si può proporre qualcosa che fa diminuire la produzione quando la domanda esige un aumento? Ma vi è di più: come si fa a chiedere ai paesi poveri di pagare il grano più caro al fine che noi possiamo diminuire il consumo di gas nella produzione di concimi?
In conclusione
ALBERTO GUIDORZI
Agronomo. Diplomato all’Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l’UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l’Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell’agricoltura francese che italiana.