Dal numero ora online di creafuturo dedicato alla sostenibilità vi proponiamo questo articolo relativo ad un innovativo progetto di economia circolare. creafuturo è la testata giornalistica on line del CREA, il più importante ente italiano di ricerca dedicato all’agroalimentare.
di Daniela Pacifico / Bruno Parisi / Carlotta Balconi / Nicola Pecchioni
ROMA – Lo spreco alimentare è un danno per la sostenibilità dell’agricoltura e delle filiere agro-industriali e un problema economico e sociale. E’ possibile valorizzare lo scarto alimentare rendendolo una risorsa? Le piante, infatti, producono sostanze in grado di difenderle da animali erbivori, nematodi, batteri e funghi fitopatogeni, racchiuse spesso nelle parti della pianta scartate durante il processo di trasformazione industriale. Perché non usarle per la protezione di altre colture, innescando un circuito virtuoso di sostenibilità? È quanto fa SUSINCER, il progetto coordinato dal CREA Centro Cerealicoltura e Colture Industriali in partenariato con i Centri Ingegneria e Trasformazioni agro industriali e Politiche e Bioeconomia.
Un progetto di economia circolare
Lo spreco di risorse agro-alimentari è un danno per la sostenibilità dell’agricoltura e delle filiere agro-industriali, ancor prima di costituire un problema economico e sociale di grande attualità. Esso ha infatti evidenti effetti negativi su economia, ambiente e salute. Quali implicazioni esistono per la sostenibilità? L’uomo ha imposto al pianeta un modello di economia lineare che prevede la creazione di un bene, il suo utilizzo e, infine, il suo scarto. Al contrario, in natura tutto è indissolubilmente connesso e circolare, ed imporre un cambio di prospettiva è nostra responsabilità. A decidere del futuro del pianeta sarà l’adozione di un modello produttivo che ripensi al paradigma lineare attuale, convertendolo in uno circolare, per tutte le attività economiche.
In tale prospettiva, il progetto SUSinCER– Sustainable use of bioactive compounds from Brassicaceae and Solananceae wastes for cereal crop protection, mira ad intercettare opportunità di valorizzazione dello scarto per definire bio-prodotti innovativi e sostenibili di interesse per la filiera cerealicola. Il concetto è semplice. Le piante sono abili produttrici di sostanze che le difendono dall’attacco di animali erbivori, nematodi, batteri e funghi fitopatogeni. Se queste sostanze si concentrano in parti della pianta scartate durante il processo di trasformazione industriale, perché non usarle per la protezione di altre colture? Lo scarto non sarebbe più scarto, in quanto l’alto valore aggiunto verrebbe valorizzato e le formulazioni sintetiche, normalmente usate come pesticidi, contro le quali le agenzie regolatorie europee si sono già più volte espresse, potrebbero avere come possibile alternativa estratti vegetali utilizzati come bioprodotti di difesa fitosanitaria. Le bucce di patata sono, per esempio, preziose fonti di biochemicals che il progetto mira a reintrodurre nella filiera, puntando a dare vita ad un modello di economia circolare, che coinvolga l’immissione della produzione biologica primaria in una filiera industriale sostenibile il cui flusso di scarti può essere impiegato come risorsa nella difesa delle due colture alimentari più diffuse al mondo: mais e frumento.
La Patata e i composti bioattivi
Il settore della patata trasformata (detta “patata da industria”) è in forte crescita in tutta Europa da oltre due decenni. Le esportazioni totali (comprese quelle tra i paesi membri dell’UE stessa), sono state di 6,472 miliardi di euro nel 2019, con un aumento del 95% rispetto al 2009 (Fonte: EUPPA-European Potato Processors’ Association).
La quantità di rifiuto, perlopiù bucce, che si crea durante il processo di lavorazione che porta sulle nostre tavole patate surgelate, french fries e chips, in Italia si attesta a circa 39.000 t, (circa il 26% delle 150.000 t di patate lavorate nel 2015). Alcune virtuose realtà industriali sfruttano già l’elevato tenore in amido (zucchero complesso) del tubero per la conversione in biometano ad opera di biodigestori del tubero scartato. Questo processo utilizza, però, in maniera indistinta tutti i tessuti del tubero, lasciando inespresso lo straordinario e peculiare profilo fisico-chimico della buccia.
Qui sono presenti, infatti, alcune molecole bioattive, che anche se non essenziali per la vita, sono particolarmente interessanti per le loro proprietà, anche biocide (sostanza utilizzata per distruggere, eliminare e rendere innocuo, impedire qualsiasi organismo nocivo). Gli “alcaloidi” sono senza dubbio tra i più interessanti. Basti pensare che appartengono a questa famiglia di sostanze la nicotina (nel tabacco), la caffeina (caffè, tè), la teobromina (cacao), la capsaicina (gusto piccante del peperoncino), ma anche la tubocurarina (curaro) o la coniina o cicutina (cicuta) e la morfina (papavero). Sono prodotti dalla famiglia botanica delle Papaveracee, Fabacaea, Ranucoloacae e Solanaceae. La patata, come altre Solanaceae tra cui pomodoro e melanzana, è ricca in particolare in “glicoalcaloidi”, presenti in molti organi della pianta (foglie, radici, germogli e tuberi), i quali risultano composti dall’unione di un residuo zuccherino con una molecola alcaloide. Il germoplasma di patata ne è straordinariamente ricco sia in quantità sia in qualità mostrando circa 80 molecole diverse e a concentrazioni piuttosto alte. Ma perché i glicolacaloidi sono interessanti? Il loro ruolo ecologico è ormai accertato dalla comunità scientifica, che ne ha attestato l’attività biocida, da qui l’enorme potenziale per il rilascio di nuovi fitofarmaci. Interessanti, in questo senso, sono anche gli studi circa la loro attività putativa nei confronti di patogeni umani come il batterio Trichomonas vaginalis.
Altre molecole, anch’esse presenti in buccia, potrebbero contribuire a creare un’attività biologica complessa. L’impostazione dell’attività sperimentale non può pertanto prescindere dallo studio di quanto si trova nella matrice derivante dallo scarto. La bibliografia su questa tematica sembra ormai aver accertato che la concentrazione di un composto non è infatti necessariamente legata alla sua efficacia, ma dipende dai molti fattori in grado di sinergizzare o inibire il meccanismo d’azione del singolo composto. Da qui, la complessità dell’ambizioso e pioneristico progetto di ricerca, che sta coniugando una molteplicità di fattori sperimentali con la multidisciplinarità degli attori coinvolti per la sua riuscita.
La sfida della cerealicoltura italiana
Frumento e mais rivestono un ruolo base nel panorama agroindustriale italiano e rendono prestigioso il Made in Italy in tutto il mondo. Tuttavia, oggi richiedono interventi mirati a ripristinare e sostenere la loro competitività. La produzione di frumento tenero, diffusa su tutto il territorio nazionale, con maggiore concentrazione nelle regioni dell’Italia Settentrionale, rappresenta però oggi appena il 35-40% del fabbisogno. L’aumento dei prezzi del grano, le tensioni, anche drammaticamente recenti, sui mercati internazionali, le riduzioni degli stock, anche a causa dei cambiamenti climatici in atto, contribuiscono, inoltre, a creare un deficit strutturale, che necessita attenzione. Il mais, una delle principali colture agricole del nostro Paese, prima sia in termini di produzione che di rese, ha visto, negli ultimi anni, un importante e preoccupante calo di superficie nazionale coltivata, con conseguenti ingenti perdite per l’intera filiera. La progressiva perdita di competitività, registrata dal settore, è avvenuta a causa di una serie di criticità convergenti: contrazione dei prezzi e conseguente diminuzione della redditività, elevati costi fissi di produzione, condizioni climatiche sempre meno favorevoli, stress della coltura più soggetta alle malattie causate da patogeni fungini, che producono micotossine (tra le quali aflatossine e fumonisine), che possono accumularsi nel raccolto provocando un potenziale rischio sanitario per l’uomo e per il bestiame. A causa di tutte queste problematiche nel loro insieme, la superficie coltivata a mais in Italia si è pressocché dimezzata nell’ultimo decennio a favore di altre colture come ad esempio la soia, raggiungendo livelli minimi che, nel 2021, sono scesi a valori inferiori ai 600mila ettari (dati ISTAT, 2021).
Alla luce delle nuove sfide poste dal Green Deal, incrementare la capacità produttiva orientando la filiera verso una gestione a ridotto impatto ambientale e una difesa fitosanitaria più sostenibile tramite formulazioni innovative, diventa perciò una sfida cruciale per rendere disponibili agli agricoltori elementi essenziali della produttività e della qualità cerealicola.
Inoltre, potrebbero trarne beneficio anche le aziende che operano nel settore dei fertilizzanti, interessate a sviluppare nuovi prodotti, che potrebbero aumentare il valore economico e ambientale dei propri scarti industriali; e i consumatori stessi, divenuti oggi più attenti all’ecosostenibilità del prodotto acquistato.