A cura di Riccardo Gucci – Accademia dei Georgofili
FIRENZE – Il 26 novembre è stata la giornata mondial dell’olivo, il World Olive Tree Day, istituito nel 2019 dall’Unesco, che lo ha incluso nella sua lista dei Patrimoni Culturali Immateriali (Intangible Cultural Heritage).
La giornata serve a sensibilizzare la collettività verso una maggiore protezione dell’olivo e i valori che questo albero incarna in modo da contribuire ad apprezzare il valore sociale, economico, culturale e ambientale dell’olivicoltura nel mondo. Il 24 novembre 2023 la FAO dedica all’evento una conferenza, che si terrà sia in presenza che da remoto, dedicata alle prospettive future dell’olivicoltura (Looking towards the future) ed alla quale interverranno esperti internazionali.
Secondo l’ultimo censimento dell’agricoltura (7° Censimento Generale dell’Agricoltura del 2020) in Italia ci sono 994.000 ettari di oliveti con una contrazione di quasi 200.000 ettari rispetto alla precedente rilevazione del 2010, in cui ne erano stati censiti 1.191.000. Nell’arco di un decennio sono perciò sparite aziende e superfici sia per motivi economici che sociali, ma è anche vero che molti ettari ed olivicoltori censiti nel passato esistevano più sulla carta che nella realtà. Andando a ritroso nel tempo la superficie olivicola italiana era assai più estesa.
Nel 1930 furono rilevati 812.000 ettari in coltura specializzata e 1.315.000 in coltura promiscua, nel 1940 rispettivamente 826.000 e 1.361.000 ettari. Il picco di superficie olivicola fu raggiunto nel 1962 con 924.000 (specializzata) e 1.397.000 ettari (promiscua). In quegli stessi anni (quadriennio 1961-1964) la produzione di olio oscillava fra 304.000 e 538.200 tonnellate, record stabilito nel 1963. L’Italia era il primo paese al mondo per produzione oleicola e per numero di olivi prodotti dal vivaismo. Nelle ultime 10 annate la media annua prodotta dall’Italia è stata di circa 320.000 tonnellate di olio, nel quadriennio 2018-21 di 286.000 tonnellate, nel 2022 di circa 240.000. La campagna di raccolta in corso non servirà ad aumentare questi numeri perché si stima che non si supereranno le 300.000 tonnellate. Un declino strutturale che sembra irreversibile eppure la tendenza negativa può essere arrestata ed invertita se si interverrà con strumenti normativi ed economici idonei.
Una delle cause principali della crisi produttiva è data dagli alti costi di produzione a cui contribuiscono la piccola dimensione aziendale, la vetustà degli oliveti e l’orografia difficile di tanti territori olivicoli.
Negli ultimi 10 anni la superficie media aziendale italiana è aumentata da 8 ad 11,1 ettari, ma è ancora molto indietro rispetto a quella di Francia (68,7 ettari), Germania (63,1), Irlanda (33,3) e Spagna (26,1). Solo il Portogallo ha valori simili ai nostri con 13,7 ettari. L’obsolescenza degli oliveti è un altro dei motivi della crisi.
L’età media degli oliveti è avanzata e i nuovi impianti sono ancora insufficienti per riuscire a rilanciare la produzione italiana. Molti oliveti poi sono su pendenze che rendono difficile la meccanizzazione, che in qualche caso diventa impossibile (vedi gli oliveti terrazzati). La conseguenza è l’abbandono degli oliveti, fenomeno che coinvolge sia aree potenzialmente produttive e redditizie che altre marginali. Un degrado che deve essere contrastato. L’olivicoltura italiana annovera diversi punti di forza. Innanzitutto, una biodiversità ampia che poggia su centinaia di varietà autoctone. Queste sono la base per le 49 DOP e IGP già riconosciute e i numerosissimi oli monovarietali prodotti nel nostro paese. L’indiscussa qualità media della produzione è un altro primato italiano, che deriva non solo dall’attenzione posta in campo ma anche dalla professionalità applicata in frantoio, che sono anche il frutto delle nuove conoscenze e tecnologie sviluppate dalla ricerca. E poi il ruolo storico, culturale, paesaggistico ed ambientale, cioè la multifunzionalità di questa coltura.
A questo proposito è bene sottolineare l’importanza del ruolo ambientale degli oliveti tradizionali nelle aree collinari, ove contribuiscono alla prevenzione del rischio-idrogeologico e degli incendi, in contesti spopolati ove vi sono poche alternative colturali e l’abbandono dei terreni è diffuso. Ed inoltre, assorbendo carbonio, contribuiscono posistivamente a ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, un altro aspetto da non trascurare in un’era di cambiamenti climatici ed un motivo in più per aver cura e sostenere la nostra olivicoltura.