VERONA – Grani antichi e moderni, fra produzione e produttività. E poi il futuro dell’agricoltura fra sostenibilità, uso dei fitofarmaci (proprio di oggi la novità annunciata dalla Von der Leyen) e lo sviluppo delle nuove tecnologie che si basano sul miglioramento genetico.
Ne abbiamo parlato a Fieragricola con Luigi Cattivelli, direttore del Centro di ricerca Genomica e Bioinformatica del CREA e autore di un recente libro dal titolo “Pane Nostro – Grani antichi, farine e altre bugie” che ha fatto discutere anche su agricultura.it
Professor Cattivelli, quali sono le differenze fra grani antichi e grani moderni?
C’è tanta informazione errata, tante fake news. Tre punti fondamentali: i grani antichi non sono il futuro, su questo bisogna essere molto chiari. I grani antichi non producono abbastanza per darci da mangiare: un grano antico produce la metà dei grani moderni, quando va bene. Semplicemente non è possibile in questo pianeta, dare da mangiare a tutti ma neanche in Italia, dare da mangiare a tutti usando i grani antichi. Ricordo che l’Italia importa il 60 per cento del grano tenero che usa per fare le farine (pizza, dolci, pane).
Altro aspetto importante che i grani antichi, per il fatto di essere antichi, selezionati 100 anni fa, non sono adatti alle condizioni climatiche di oggi e ancora meno a quelle di domani. Se uno crede realmente che il cambiamento climatico esista, e quindi è convinto che oggi 2024 fa già più caldo di 30 anni fa, e che conseguentemente fra 10-20 anni farà più caldo di oggi, allora non c’è una logica nel pensare che il grano antico selezionato 100 anni fa sia il grano del futuro, le piante si devono adattare al clima del momento.
Cambiare il grano non significa cambiare il seme, fare una pianta di grano moderna significa fare una pianta di grano moderna significa fare una pianta di grano di vivere in questo ambiente, in questo clima, con le resistenze alle malattie necessarie oggi, ma non significa cambiare la composizione del seme del prodotto che noi mangiamo, noi facciamo piante moderne non semi diversi da quelli che servono, la composizione del seme è legate alle esigenze della società e alla richiesta dell’industria molitoria, ma anche alle caratteristiche e esigenze nutrizionali dei consumatori ma sempre separando la composizione del seme dalla pianta, la pianta deve essere moderna, il seme deve essere quello che serve.
Come mai siamo tornati a valorizzare i grani antichi?
Sia chiaro, non sono contrario a priori ai grani antichi, un pezzo di storia dell’agricoltura, è cultura, come lo è un museo, vanno conservati, studiati e anche coltivati in alcuni ambiti. Direi per le loro caratteristiche sarebbero la coltivazione ideale per le aree marginali, dove non si può fare nient’altro, dove si può valorizzare un prodotto che non ha una grande capacità produttiva e rendere redditizie anche aree molto marginali. Vorrei che fosse chiaro che non sono il futuro e che non possiamo attribuire proprietà miracolistiche a grani che, quando vengono misurati, non rivelano quello che si sente in giro.
Quale deve essere il futuro?
Penso che abbiamo una necessità impellente, di rendere l’agricoltura sostenibile e produttiva. Attenzione, sostenibile è la capacità di produrre con un ridotto impatto ambientale, non è la capacità di avere un basso impatto ambientale. Fare una cosa sostenibile senza soluzione è banale, quello che è difficile fare una cosa sostenibile che produce.
Per fare questo servono nuove tecnologie genetiche, nuove ricerche ed investimenti. Siamo un paese che sta aprendo alle nuove tecnologie, ma che non investe niente in nuove tecnologie da diversi anni. Rendiamoci conto che se apriamo un mercato perché la normativa cambia, quel mercato se lo prenderà chi, pubblico o privato che sia, investe in quel prodotto. Stiamo attenti a non aprire senza investire, altrimenti diventiamo un mercato perfetto per chi ci investe.
Le politiche europee a suo avviso stanno aiutando questo percorso?
Risposta difficile. La politica europea ha questa dimensione del green deal che è molto rilevante, a mio parere. Per soddisfare le richieste del green deal e per mantenere una produzione elevata, in modo produttivo e sostenibile, servirebbe un investimento in ricerca pazzesco, bisogna veramente adeguare radicalmente le varietà che coltiviamo alle nuove esigenze. E questo vale per ogni coltura, non è una cosa semplice: personalmente penso che sia difficile raggiungere gli obiettivi mantenendo una autosufficienza alimentare, una delle due cose dovrà essere compromessa.
Migliorando in ricerca, sulla genetica, potremmo ridurre l’uso dei fitofarmaci?
Su questo ci sono pochi dubbi: ci sono tantissimi lavori, che ormai puntano a selezionare soprattutto con le TEA, piante resistenti alle malattie: il caso della vite è emblematico, ma ci sono anche altre situazioni. Non c’è dubbio che l’uso esteso delle TEA, ma del miglioramento genetico in generale, contribuisce a ridurre l’uso dei fitofarmaci in agricoltura.
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