ROMA – Fitofarmaci e miglioramento genetico, un futuro con più biotecnologie e ricerca scientifica. Ma anche un’agricoltura italiana ed europea che deve scontare decenni di scelte ideologie e fake news che hanno favorito un “panico morale” a scapito di una vera conoscenza diffusa. Politica compresa. Senza dimenticare che “la tradizione di oggi non è che l’innovazione di ieri”.
Di attualità e politiche agricole, del futuro dell’agricoltura, di possibili scenari basati su scienza e ricerca, abbiamo parlato con la senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo
Senatrice Cattaneo, nelle ultime settimane, anche in seguito alle proteste degli agricoltori, l’Europa ha fatto alcuni dietrofront, come lo stop alla direttiva fitofarmaci. È a suo avviso un ripensamento del Green deal e Farm to fork?
Se un reale ripensamento ci sarà, spero arrivi con la consapevolezza che, prima di vietare o favorire determinati prodotti e pratiche agricole, le istituzioni dovrebbero avvalersi di organi di consulenza scientifica per una valutazione dell’impatto di tali scelte. È un metodo che, lo ripeto da anni, dovrebbe riguardare ogni decisione pubblica.
Purtroppo, quando l’ideologia si fa particolarmente forte e penetrante, alcune “parole d’ordine” filtrano negli atti legislativi prima che sia disponibile una stima solida dei loro effetti, e credo che qualcosa di simile sia successo nella definizione delle nuove strategie europee sull’agricoltura. Già due anni fa, in un articolo su D di Repubblica e in alcuni eventi cui ho partecipato, avevo evidenziato come la Commissione europea non avesse tenuto sufficientemente in conto le varie analisi di scenario disponibili (tra cui quella del JRC, Centro di ricerca comune della stessa Commissione europea) che avvertivano dei possibili impatti negativi di quelle politiche non solo in Europa, ma sui mercati agricoli di tutto il mondo. Oggi i manifestanti protestano anche contro alcune di queste criticità, perché la realtà presenta sempre il proprio conto.
Negli stessi giorni, l’approvazione del regolamento Ngt da parte del Parlamento europeo. Pensa sia la strada giusta per una maggiore competitività e per arrivare ad una maggiore produzione di cibo?
Negli anni ho incontrato numerosi imprenditori agricoli, studiosi ed esperti del settore agrario: grazie anche a questa attività di ascolto, ho compreso come liberare la ricerca sulle nuove biotecnologie in agricoltura sia una delle strade da percorrere per migliorare le rese delle colture riducendo lo spreco in campo e l’uso di agrofarmaci e garantendo cibo sano per tutti a costi contenuti. Purtroppo, le campagne di comunicazione terroristiche e antiscientifiche condotte per decenni contro una presunta nocività degli Ogm per la salute e per l’ambiente, pur se infondate e continuamente smentite dalla ricerca scientifica, hanno reso i cittadini diffidenti verso il miglioramento genetico delle colture: una linea di azione che oggi, dati i cambiamenti climatici in corso, sarebbe invece quanto mai utile poter percorrere “in scienza e coscienza”. Ho più volte sottolineato che avere a disposizione varietà vegetali più resistenti agli stress esterni (clima, patogeni, parassiti) vuol dire avere meno spreco alimentare: coltivare un campo richiede tempo, comporta un investimento economico e un impatto ambientale, e perdere il raccolto, in tutto o in parte, a causa di una fitopatia, della siccità o dell’attacco di un parassita è uno spreco enorme, come ricorda anche la Fao. La sfida per un futuro sostenibile è ottenere di più con meno: meno suolo, meno acqua, meno agrofarmaci, che impattano, oltre che sull’ambiente, anche sulle tasche degli imprenditori e quindi dei consumatori finali.
L’Italia saprà farsi trovare pronta, a suo avviso, ad una eventuale svolta sulle TEA?
So che molti imprenditori agricoli del nostro Paese, negli scorsi anni, hanno purtroppo provato sulla propria pelle cosa significhi vedersi distruggere i raccolti da parassiti alloctoni o doversi adattare a condizioni climatiche più difficili che in passato. Anche per questo oggi guardano a queste innovazioni con speranza e curiosità. Sfruttando una disposizione provvisoria inserita nel giugno 2023 nel decreto legge “Siccità” durante la sua conversione in legge, oggi la collega professoressa Vittoria Brambilla della Statale di Milano ha chiesto l’autorizzazione a sperimentare in campo una varietà di riso resistente al brusone, e so che nella comunità scientifica italiana c’è fermento per cominciare a presentare altre richieste di sperimentazione. Il minimo che si possa fare, in attesa della nuova disciplina europea a cui conformarsi, è stabilizzare quanto previsto in via transitoria rispetto alle TEA nel DL siccità. Sarebbe inconcepibile che gli studiosi italiani si trovassero a dover attendere di anno in anno la proroga d’efficacia di una disposizione di semplificazione di mero (e minimo) buon senso.
Come mai in Italia, non sembra ancora chiaro, politica compresa, che se investiamo sulle biotecnologie possiamo ridurre fortemente o anche azzerare l’uso dei prodotti fitosanitari?
Credo che in questo paghiamo l’aver dato retta per troppi anni, a tutti i livelli (politico, istituzionale, comunicativo) a narrazioni affascinanti, ma totalmente scollate da quella che è la realtà, complessa e multiforme, dell’agricoltura. Storie in cui c’è sempre un capro espiatorio con cui prendersela e un’alternativa in cui credere, tanto bella quanto, nei fatti, impossibile. Nel recente passato ci siamo illusi che pace e abbondanza sarebbero durate per sempre, e che avremmo potuto mantenere in attivo la nostra bilancia commerciale agroalimentare semplicemente assecondando narrazioni, queste sì davvero tossiche, in grado di instillare nei consumatori di tutta Europa paure immotivate. Per anni si è raccontata la favola che l’agricoltura del nostro Paese potesse prosperare e competere “senza tutto”: senza pesticidi (e nemmeno residui), senza Ogm, senza glifosate. Ricordo, tra i moltissimi altri, l’ex ministro dell’Agricoltura e oggi vicedirettore FAO Maurizio Martina, che nella campagna elettorale del 2018 prometteva di “azzerare l’uso dei pesticidi entro il 2025″. Il problema è che nessuno chiede mai conto a coloro che inquinano in tal modo la discussione e le decisioni pubbliche. Peraltro, è vero che l’agricoltura italiana è già ora tra le più sicure e controllate al mondo in termini di residui di agrofarmaci, tanto che più del 98% dei prodotti analizzati è ampiamente all’interno di limiti di legge di per sé molto stringenti.
Nel suo libro “Armati di scienza” lei scrive che “negli anni Novanta l’Italia era (con la Francia) il paese leader nelle biotecnologie agrarie in Europa”: poi cosa è successo?
È successo che la politica ha preferito la strada delle scelte ideologiche anziché quella delle evidenze scientifiche, assecondando il terrore verso gli Ogm instillato nei primi anni Duemila nei cittadini italiani, a opera di “cattivi maestri” che hanno diffuso bufale antiscientifiche. Non solo si è scelto di vietare la coltivazione a scopo commerciale di varietà geneticamente migliorate, ma si è anche, nei fatti, reso impossibile ottenere l’autorizzazione a sperimentarle in campo aperto. Per un mancato rinnovo delle autorizzazioni, il professor Eddo Rugini dell’Università della Tuscia, nel 2012, è stato obbligato a mettere materialmente al rogo trent’anni di conoscenza: bruciate le sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificati per resistere a parassiti, al freddo o alla siccità. Grazie al miglioramento genetico di quegli alberi, mai nessun pesticida era dovuto entrare in quel campo sperimentale prima della distruzione. La professoressa Alessandra Gentile dell’Università di Catania ha messo a punto e sperimentato in serra, con successo, un limone Ogm resistente al malsecco (malattia che da oltre un secolo flagella le colture della pregiata varietà Femminello Siracusano in Sicilia), ma è dovuta andare fino in Cina per poterlo sperimentare in campo. Di esempi come questi ne abbiamo decine: è per me inconcepibile affossare un intero settore della ricerca perché non ci si vuole assumere la responsabilità di combattere le paure dei cittadini spiegando e convincendo.
Alcuni prodotti agricoli utilizzati comunemente vengono etichettati come “tradizionali”, “di nicchia” o anche “naturali”, insomma come se nascessero “dalla natura” quasi per miracolo. Poi, facendo solo qualche esempio, vediamo che il pomodoro Pachino nasce in laboratorio in Israele a fine anni ’80; anche un grano antico come il Senatore Cappelli nasce dagli incroci di Strampelli ad inizio Novecento; il vino che beviamo oggi è frutto di miglioramenti genetici dei cloni, ed il cosiddetto “vino del contadino” oggi non lo berremmo. E così per tutto quello che ci arriva in tavola. Perché invece nell’opinione pubblica fa così paura la “ricerca genetica” in agricoltura?
È bene ricordare, e ripetere in ogni occasione, un concetto tanto semplice quanto misconosciuto: la tradizione di oggi non è che l’innovazione di ieri, e questo processo è andato avanti da quando la specie umana ha iniziato a praticare l’agricoltura. Bisognerebbe capire quali siano i criteri secondo cui si è deciso di fissare arbitrariamente un limite temporale oltre il quale l’innovazione in campo agricolo ha smesso di essere parte della nostra storia ed è diventata un nemico da combattere a tutti i costi, al di là di ogni evidenza scientifica, spesso a detrimento proprio di quella “sovranità alimentare” che, a parole, tutti affermano di voler salvaguardare. Sempre di più credo che questi argomenti andrebbero affrontati in modo “laico”, più distante possibile dalle ideologie e dal marketing della paura.
Ricordiamo tutti la campagna pubblicitaria della Coop su pericoli inesistenti come la “fragola-pesce”, o i casi – completamente inventati – di “morti sospette” legate agli Ogm, di cui parlava Beppe Grillo nei suoi show dei primi anni Duemila. Il danno cognitivo compiuto da oltre vent’anni di questa narrazione terroristica antiscientifica, diffusa e alimentata nella società anche da operatori economici e mediatici, appare difficilmente riparabile: la fama negativa degli Ogm è ancora troppo forte per poterli anche solo nominare senza causare reazioni scomposte, e rischia di trasmettersi anche alle nuove biotecnologie. La marea di “panico morale” (termine usato da alcuni antropologi come Genevieve Bell) che investe la società quando tecnologie particolarmente rilevanti si mostrano al mondo per la prima volta può fare danni irreparabili, se non ci si arma di metodo, di prove, di studio e di ragionamenti che aiutino a mettere in fuga le paure e il rischio del rifiuto generalizzato del nuovo.
Infine, carne coltivata: l’Italia dice “no”, ma la ricerca in Europa e nel mondo va avanti. Può essere una minaccia per l’agricoltura (e allevamenti) italiana?
Come si può pensare che la ricerca possa essere una minaccia? Costruire nuove conoscenze non può che offrire opportunità: è solo dopo aver studiato che si possono misurare in maniera informata vantaggi e svantaggi di quelle opportunità, e quindi decidere se coglierne o meno i frutti. Già ora, comunque, possiamo dire che è estremamente difficile che questo tipo di tecnologie possa minacciare il Made in Italy: in primo luogo perché, a fronte di un ampliamento del mercato, il prodotto italiano di qualità sarà ancora più valorizzato; in secondo luogo perché l’Italia importa circa il 50% della carne bovina consumata nel Paese, e quindi, anche in un’ottica di “sovranità alimentare”, un’eventuale filiera della carne coltivata italiana potrebbe aiutarci a ridurre la dipendenza dall’estero mantenendo controllata ed elevata la qualità dei prodotti.
FOTO SEN. ELENA CATTANEO – ©2017 Fotografico, Senato della Repubblica