ROMA – Permangono squilibri strutturali nella distribuzione del valore lungo la filiera agroalimentare, con le fasi più a valle, quali logistica e distribuzione, in grado di trattenere la quota più elevata del valore finale del prodotto, a discapito soprattutto della fase agricola.
Secondo l’analisi della catena del valore, realizzata da ISMEA sulla base dei dati più recenti dell’ISTAT e illustrata oggi nell’ambito della presentazione del Rapporto Agroalimentare 2024, su 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macro-settore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l’utile dell’agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell’industria, pari a 2,2 euro, contro i 13,1 euro del commercio e trasporto.
Nel periodo 2019-2023, nel contesto dei grandi stravolgimenti dovuti all’emergenza pandemica e allo shock energetico, il fisiologico ritardo nella trasmissione degli aumenti dei prezzi delle materie prime alle fasi a valle dell’agricoltura, in particolare all’industria e alla distribuzione, ha comportato temporanei cambiamenti nella distribuzione del valore che non hanno tuttavia modificato, a conclusione di questo percorso, gli assetti a sfavore delle componenti produttive, in particolare del settore primario.
L’ approfondimento, realizzato dall’Istituto, sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali.
Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023.
Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell’allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime. In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell’industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell’inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro/kg, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.
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