ROMA – “L’innovazione della coltivazione dell’uva da tavola fuori suolo è da considerare ormai pronta e matura”.
Rosario Di Lorenzo, docente all’Università di Palermo e presidente dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino, lavora sul campo da 25 anni e racconta della necessità di valorizzare la ricerca in tutti i segmenti della filiera per velocizzare il trasferimento delle innovazioni nelle realtà produttive. Un percorso obbligato se l’Italia vuole mantenere la leadership nel mercato europeo – e il settimo posto tra i produttori a livello mondiale – ma anche, e soprattutto, per contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico.
Il mercato globale, infatti, continua a crescere: “C’è un interesse globale al miglioramento varietale dell’uva da tavola, che ha raggiunto una produzione di 28 milioni di tonnellate, il 19,7% in più rispetto al 2012. Un incremento superato solo da quello del kiwi, che però vale meno di 4,5 milioni di tonnellate”, spiega Bruno Mezzetti, professore di Breeding e biotecnologie delle colture frutticole dell’Università Politecnica delle Marche e coordinatore del simposio che ha aperto l’edizione 41 di Macfrut che si è conclusa a Rimini il 10 maggio. Gli organizzatori hanno scelto l’uva da tavola come prodotto simbolo e la Puglia come regione ospite. In quella terra, infatti, si concentra il 60% della produzione nazionale, il resto arriva dalla Sicilia. Parliamo di circa 1 milione di tonnellate di raccolto annuo, con un calo a doppia cifra sull’ultima stagione e una concorrenza sempre più forte sui mercati internazionali di Cile e Perù.
La sfida sui mercati internazionali – dove le prospettive di sviluppo sono positive con un più 5,7% a livello mondiale e un +14% in Europa – si gioca, allora tutta sull’innovazione e nel rafforzare e valorizzare la via italiana al breending (allevamento) che deve fare i conti con il potere e le risorse economiche di un oligopolio formato da tre multinazionali, la californiana Sun World, l’anglo-francese Bloom Fresh e l’israeliana Grapa. Ancora Mezzetti: “La genetica ha permesso fin qui di creare acini più grossi e senza semi (partendo dall’antica varietà persiana apirena, l’uva sultanina), con una maggior gradazione zuccherina, un aroma moscato e diverse colorazioni, ma un altro carattere chiave per migliorare le cultivar è la precocità: l’obiettivo è anticipare la produzione e adattare le viti ad ambienti climatici sempre più caldi”.
In questo schema di gioco la coltivazione dell’uva fuori suolo potrebbe rafforzare il percorso del trasferimento dell’innovazione all’industria: “Questo metodo – prosegue Di Lorenzo – assicura produzioni comparabili a quelle che si ottengono nella coltivazione su suolo naturale. In alcuni casi possono essere addirittura maggiori: visto che le temperature nel periodo settembre-novembre si sono decisamente innalzato è possibile realizzare due cicli produttivi nel medesimo anno forzando la pianta a una seconda fioritura successiva alla prima raccolta”.
Il risultato? Il calendario per la commercializzazione si allunga ma “tocca alle imprese individuare la soluzione migliore per valorizzare questa nuova opportunità”.
Imprese che dovranno valutare attentamente il rapporto costi e benefici anche per quanto riguarda la disponibilità della risorsa acqua. Tra i benefici, comunque, di Lorenzo sottolinea anche il fatto che “per realizzare un nuovo vigneto si usano talee radicate franche di piede che, a distanza di un anno dalla loro preparazione, già fruttificano regolarmente”. Senza dimenticare che il fuori suolo “permette una rapida valutazione varietale e una dinamicità produttiva che garantisce un rapido cambio varietale in caso di necessità”. Ed effetti positivi si avrebbero anche dal “superamento dei problemi legati alla stanchezza dei terreni”. E non è solo teoria: “Calcolando che i vasi di piante che possono convivere in un ettaro può arrivare fino a 15 mila e che ogni pianta produce almeno un chilo e mezzo d’uva per ogni ettaro di possono raccogliere almeno 225 quintali”, conclude Di Lorenzo.
Dal suo punto di vista il salto di qualità potrebbe scattare con la programmazione e con la definizione di strategia di filiera che sia in grado di garantire regolari forniture alla Gdo e dare voce all’identità territoriale. E qui entra in gioco la genetica. Dal 2010 i ricercatori dell’Università di Catania sono impegnati in programmi di breeding con lo scopo di ottenere varietà apirene, innovative, costituite nel territorio e per il territorio. Una ricerca portata avanti da Alessandra Gentile ed Elisabetta Nicolosi. La loro tesi? “Spesso, le nuove uve apirene proposte dai vari enti costitutori, spesso stranieri, non confermano le attese degli agricoltori italiani che, tra l’altro, si imbarcano in grossi investimenti economici, sia per difficoltà di acclimatamento sia perché necessitano di particolari cure colturali e quindi necessitano di una gestione differente da quella tradizionale”.
Dal loro punto di vista “programmi di miglioramento genetico radicati in uno specifico territorio viticolo che tengano conto delle peculiarità non solo pedo-climatiche, ma anche della tradizione colturale e delle specifiche attese degli agricoltori, possono risultare di gran lunga più efficienti per il rinnovamento varietale del territorio stesso”. Da qui è nata una sperimentazione sul campo con le aziende del comprensorio di Mazzarrone.
Sperimentazione che ha permesso di ottenere ibridi con seme di diversa consistenza e ibridi apireni. Su un campione di 1.200 piante sono stati selezionati una trentina di genotipi “con caratteristiche di rilievo per croccantezza, sapore, dimensione e forma degli acini, colore della buccia e forma del grappolo”. E sette sono stati iscritti all’Ufficio Comunitario delle Varietà Vegetali.