Roberto Mazzoni della Stella
Biologo, esperto di risorse faunistiche, difesa della fauna, programmazione e gestione faunistica
ROMA – Nel 2022, alcuni ricercatori dell’Università di Sassari hanno pubblicato uno studio sulla genetica delle popolazioni italiane di cinghiale.
Questo lavoro ha dimostrato come le immissioni di cinghiali avvenute in Italia a partire dagli anni ’60 siano state realizzate in prevalenza, contrariamente a quanto finora ritenuto, tramite soggetti provenienti dall’area tirrenica (Castel Porziano, Maremma tosco-laziale e Colline Metallifere) e appartenenti alla sottospecie Sus scrofa majori, popolarmente conosciuta come cinghiale maremmano.
Nel 1996, in una località collocata nella parte orientale delle Colline Metallifere (Cornocchia, comune di Radicondoli, provincia di Siena), l’Azienda di Stato delle Foreste Demaniali realizzò nel bosco demaniale tre recinti, nei quali rimasero reclusi alcuni cinghiali presenti naturalmente in quel territorio e quindi ragionevolmente appartenenti anch’essi alla sottospecie Sus scrofa majori.
Da questo piccolo nucleo di cinghiali si sviluppò successivamente un importante allevamento. Una parte della documentazione di questo allevamento, rintracciata dal Raggruppamento Carabinieri Biodiversità di Siena e risalente ai primi anni ‘70, attesta la cattura e il trasferimento in varie località dell’Italia centrale e meridionale di 268 cinghiali.
Questi documenti appaiono dunque confermare la scoperta dei ricercatori dell’Università di Sassari.
Sfruttando i più moderni metodi di indagine scientifica, un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Sassari, nel febbraio del 2022, ha pubblicato i risultati di uno studio sulla genetica delle popolazioni italiane di cinghiale che sono da ritenersi davvero rivoluzionari.Da questo lavoro, condotto tramite l’analisi dei patrimoni genetici di 134 cinghiali, provenienti da sei diverse regioni italiane (Val d’Aosta, Liguria, Toscana, Lazio, Calabria e Sardegna), e 7 maiali, a loro volta confrontati con il DNA di 128 cinghiali europei e di 103 suini domestici, sono infatti emersi alcuni dati di assoluta rilevanza scientifica.
Il primo ha documentato la rilevante differenza genetica esistente tra i cinghiali presenti in buona parte dell’Italia e quelli diffusi nel resto dell’Europa, provocata in tempi primordiali dalla barriera geografica delle Alpi. Il secondo ha dimostrato la marcata diversità genetica esistente tra i cinghiali italiani e i maiali. Il terzo, l’acquisizione scientifica senza dubbio più sorprendente, ha evidenziato il sostanziale mantenimento da parte dei cinghiali italiani della loro identità genetica originaria.
Questi dati genetici hanno dunque provato come i rilasci di cinghiali avvenuti in Italia a partire dagli anni ’60, siano stati composti da un numero limitato di esemplari di origine europea o di ibridi con il maiale e, viceversa, costituiti in prevalenza da soggetti provenienti dall’area tirrenica, di Castel Porziano, della Maremma tosco-laziale e delle Colline Metallifere, appartenenti alla sottospecie Sus scrofa majori, popolarmente conosciuta come cinghiale maremmano.
È proprio dalla vasta area boscosa e ricca di minerali denominata Colline Metallifere, dove il cinghiale non si è mai estinto, che provengono le prove documentali che avvalorano la tesi sui ripopolamenti attuati con esemplari prevalentemente autoctoni sostenuta dai ricercatori dell’Università di Sassari.
La nostra storia ha inizio nella località denominata Cornocchia, nel comune di Radicondoli, in provincia di Siena, collocata nella porzione più nordorientale dell’area delle Colline Metallifere. Qui, nel 1966, secondo la memoria di Oris Cigni, guardia forestale in servizio a Cornocchia fin dal 1961, il dott. Santi Brogi, direttore dell’Azienda di Stato delle Foreste Demaniali di Cornocchia, fece costruire all’interno del bosco demaniale 3 recinti, di circa complessivamente 700 ettari di superficie e circa 12 chilometri di perimetro, all’interno dei quali rimasero chiusi alcuni cinghiali presenti in quel territorio.
Di quali cinghiali si trattava? Secondo la guardia Cigni erano senza dubbio maremmani. Ricorda infatti lo stesso Cigni: “Nel 1961, insieme al collega Silverio Baccani, scoprimmo per la prima volta le tracce di tre cinghiali, un adulto e due più piccoli e a partire da quell’anno le orme e quindi i cinghiali, incominciarono ad aumentare. Questi animali venivano sicuramente dalla Maremma, perché noi della Forestale non avevamo certo cinghiali da liberare”.
A questo proposito, sempre il Cigni si dichiara assolutamente certo, dati gli stretti rapporti di lavoro e anche di caccia che intratteneva con il dott. Brogi, che mai furono inseriti nei recinti di Cornocchia dei cinghiali provenienti da altre parti. Da questo piccolo nucleo di cinghiali ebbe dunque inizio un allevamento, composto esclusivamente da cinghiali già presenti nel territorio. D’altro canto, nel comune di Radicondoli, testimonia ancora una volta il Cigni, il primo cinghiale fu abbattuto verso la metà degli anni ’60, ma la prima squadra di caccia al cinghiale, composta da circa 40 cacciatori, fu formata solo verso la metà degli anni ’70.
A partire dal 1966, i cinghiali presenti nei recinti di Cornocchia aumentarono rapidamente di numero. Negli anni ’80, secondo i ricordi di Cigni, nei 3 recinti erano ormai presenti nel complesso circa 1.300-1.400 cinghiali. Per fare fronte alle esigenze alimentari di un così elevato numero di animali, venivano fornite ingenti quantità di mais in grani e venivano coltivati anche alcuni campi. I cinghiali erano catturati, tramite trappole “di forma rotonda”, e venduti per scopi di ripopolamento in tutta Italia. “Ho portato personalmente” -afferma Cigni- “ questi cinghiali a Cosenza, a Bari, a Pugnochiuso nel Gargano, nella Riserva di caccia della Idrocarburi, oggi ENI, voluta tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 da Enrico Mattei e in tutta la Calabria, compresa Reggio. Durante questi trasporti, ho avuto anche la ventura di perdere 2 cinghiali: uno sull’autostrada Roma Napoli durante una sosta in un’area di servizio, successivamente abbattuto dalla polizia stradale; l’altro a Pugnochiuso mentre stavo trasportando un contingente destinato alla Foresta Umbra del Gargano”.
Oggi, tuttavia, queste memorie orali, grazie al Reparto Carabinieri Biodiversità di Siena (in particolare alla sensibilità del Tenente Colonnello Carlo Saveri che per primo ha compreso l’importanza scientifica di un recupero della documentazione amministrativa dell’allevamento di cinghiali di Cornocchia, alla perseveranza del Colonnello Carlo Chiavacci che si è prodigato nell’ottenere le indispensabili autorizzazioni e, infine alla sollecitudine del Capitano Marta Simonetti che, una volta acquisiti i nulla osta da parte del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e del Raggruppamento Carabinieri Biodiversità, ha consentito la consultazione del materiale tecnico-amministrativo pazientemente reperito nell’archivio di Cornocchia dal Sig. Simone Taricco), risultano pienamente confermate.
Il primo documento di rilevante importanza è costituito dall’atto, datato 9 febbraio 1974, con il quale viene istituito un registro di scarico dell’allevamento di cinghiali di Cornocchia. In esso sono riportati i dati di cattura relativi al trimestre dicembre 1973-febbraio 1974: si tratta nel complesso di 268 cinghiali, di cui 166 maschi e 102 femmine. Il resto della documentazione si riferisce, nel complesso, a 27 spedizioni di cinghiali effettuate tra l’ottobre del 1978 ed il febbraio del 1979, con la relativa consegna di 134 cinghiali, di cui 104 maschi e 30 femmine, provenienti anche da altri recinti di allevamento. Negli anni 70’, infatti, utilizzando ancora i cinghiali catturati nei recinti di Cornocchia, l’Azienda di Stato delle Foreste Demaniali realizzò, sempre in provincia di Siena, altri recinti di allevamento: a Montepescini (Murlo), Tocchi (Monticiano) e Causa (Chiusdino).
Dalla documentazione amministrativa rinvenuta, le destinazioni dei cinghiali catturati in questi recinti risultano essere: Rocca San Casciano (Forlì); Capostrada (Pistoia); Gaiole in Chianti (Siena); Donoratico (Livorno); Capalbio (Grosseto); Cerveteri (Roma); Olevano sul Tusciano (Salerno); Testa del Gargano (Foggia). Pertanto, le immissioni interessarono 5 regioni: Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Puglia.
Nel caso della Campania, l’acquirente fu la Federazione Italiana della Caccia di Salerno e due cinghiali giunsero a destinazione morti per asfissia, così come certificato dal veterinario comunale. In Toscana l’acquirente più noto fu senz’altro il conte della Gherardesca, mentre l’acquisto che coinvolse il comune di Gaiole in Chianti conferma quanto già emerso dai verbali del Comitato Provincia della Caccia di Siena, ovvero come la reintroduzione del cinghiale nell’area dei monti del Chianti sia iniziata nel 1966 e sia poi proseguita negli anni ‘70. Rimanendo in Toscana, fanno indubbiamente un certo effetto i cinghiali acquistati a Capalbio nella Maremma toscana a confine con quella laziale, cioè nell’area originaria dei maremmani. Comunque anche i cinghiali venduti a Cerveteri, nella fascia settentrionale del Lazio, furono dunque inseriti in questa medesima area. Infine, la riserva turistica “Testa del Gargano” nel comune di Pugnochiuso, per complessivi 38 cinghiali.
Negli allevamenti dell’Azienda di Stato delle Foreste Demaniali di Siena, ciascun cinghiale, una volta catturato, veniva diligentemente pesato nella gabbia di trasporto. Di conseguenza, sottraendo dal peso così ottenuto il peso noto della cassetta, veniva registrato il peso reale di ogni animale. Così, tra i maschi catturati e pesati, sono meritevoli di segnalazione sei soggetti che superavano il quintale, in particolare due che fecero registrare, rispettivamente, il ragguardevole peso di 127 e 126 chilogrammi. A detta di molti “esperti”, i maremmani erano poco pesanti, al massimo 60 chilogrammi o poco più, e di conseguenza il peso “esagerato” degli odierni cinghiali sarebbe dovuto esclusivamente agli europei immessi a partire proprio dagli anni ’70 ed agli incroci con i maiali realizzati al fine di alterarne pesi e prolificità. Quest’ultima è infatti ritenuta ugualmente molto aumentata.
Ebbene, i dati genetici riportati dai ricercatori dell’Università di Sassari, confortati dalla documentazione tecnico-amministrativa emersa dagli archivi dell’ex Azienda di Stato delle Foreste Demaniali di Siena, offrono l’opportunità di riconsiderare in modo più critico e documentato l’intera vicenda del cinghiale italiano. Vale a dire, non è più possibile trascurare gli importanti fattori ecologici che hanno favorito, al di là delle pur consistenti e diffuse immissioni, l’espansione delle popolazioni di cinghiale e l’emergere di caratteristiche fisiche, fisiologiche e comportamentali apparentemente alterate.
La fine della secolare “economia del bosco”, avvenuta proprio a partire dagli anni ’60, comportò infatti due fenomeni di fondamentale importanza ecologica: la cessazione della sistematica raccolta delle castagne destinate a soddisfare l’alimentazione umana e la dismissione dell’allevamento brado dei maiali sul sistematico pascolo delle ghiande. I boschi abbandonati, ricolmi di ghiande e castagne, ritornarono ad essere, come del resto lo erano stati in epoca primordiale, semplicemente un habitat eccezionale per i cinghiali. È proprio in queste modificazioni ambientali, piuttosto che nelle alterazioni genetiche verificatesi a seguito delle immissioni di soggetti continentali e/o all’ibridazione con i maiali, che sembrano risiedere le vere ragioni del boom demografico dei cinghiali italiani, ovvero dei Sus scrofa majori diffusisi naturalmente, o tramite immissioni, nella seconda metà del Novecento in gran parte dell’Italia.
Bibliografia
– Scandura M, Fabbri G, Caniglia R, Iacolina L, Mattucci F, Mengoni C, Pante G, Apollonio M and Mucci N (2022)
– Resilience to Historical Human Manipulations in the Genomic Variation of Italian Wild Boar Populations.
– Front. Ecol. Evol. 10:833081. doi: 10.3389/fevo.2022.833081