Mancano i veterinari aziendali, stalle a rischio. Ricerca UniFi: animali da reddito sacrificati da animali da compagnia

FIRENZE – I settori della zootecnia e dell’allevamento affrontano una criticità che rischia di diventare emergenza.

Riguarda la rarefazione dei veterinari che si occupano di grandi animali, quelli che con etichetta un po’ grossolana vengono definiti veterinari aziendali. A loro compete un’indispensabile funzione di cura degli animali da reddito, che significa anche una garanzia di sanità e sicurezza della catena produttiva agroalimentare.

Ma il compimento di questo compito si fa sempre più complicato causa mancanza di professionisti. Ciò che è conseguenza di svariati fattori, di carattere non soltanto economico, ma anzi prevalentemente culturale. I segnali d’allarme provenienti dalle aziende si accumulano, e le stesse organizzazioni professionali dei medici veterinari sono consapevoli della situazione. Ma per il momento il problema rimane e dà impressione di tendere verso un peggioramento.

Su 33mila veterinari presenti in Italia, circa il 10% si occupa di grandi animali da allevamento.

Chi segnala il problema

Il tema è al centro di una ricerca sociologica in corso presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze. La ricerca indaga sul sistema di valori, rappresentazioni e aspettative dei medici veterinari, ma tenta di mettere a fuoco anche il mutamento attraversato dalla professione nel periodo più recente. È stata l’occasione per entrare in contatto con una professione la cui complessità è scarsamente percepita dall’esterno. Lo spunto della ricerca viene proprio dalla rarefazione del numero di veterinari che si occupano di grandi animali, testimoniata per la prima volta da un allevatore dell’aretino nel corso di un’intervista effettuata nel quadro di un altro progetto di ricerca. In quell’occasione era stato tratteggiato un primo quadro della situazione di mutamento culturale e professionale in cui questa rarefazione sta avvenendo: la netta preferenza, da parte di chi compie gli studi universitari di Medicina Veterinaria, per il percorso pet, cioè gli animali da affezione o da compagnia. Che rappresentano soltanto una parte della vasta gamma di animali con cui le società umane interagiscono, ma che nel passato più recente hanno acquisito una rilevanza sociale schiacciante. Con l’effetto di squilibrare e ridefinire la prospettiva in cui il generico mondo animale viene collocato. In particolare, la linea di confine fra quelli che vengono etichettati come animali da affezione e quelli che vengono etichettati come animali da reddito si converte in un marcatore che non separa più soltanto due modalità diverse della stessa professione, ma piuttosto due mondi che si fanno sempre più distanti.

I numeri del fenomeno pet

Si ha certamente un’idea intuitiva di quanto gli animali domestici sono diventati importanti nella nostra società, ma non si coglie ancora abbastanza la misura del fenomeno. Dunque, è bene guardare alle cifre.

L’edizione 2024 del rapporto annuale di Assalco-Zoomark stima in 65 milioni gli esemplari di animali presenti nelle case degli italiani. Relativamente alla distribuzione per specie, si parla di circa 29,9 milioni di pesci, 12,9 milioni di uccelli, 10,2 milioni di gatti, 8,8 milioni di cani e 3,2 milioni di rettili e altri mammiferi (tartarughe, conigli e altre specie). Cifre così imponenti sono indicative di molte cose. Certamente parlano del progressivo riequilibrio del rapporto fra società umane e specie animali, con alcune fra queste che entrano in pianta stabile nella sfera degli affetti e negli equilibri familiari, trasformandosi sovente in un surrogato della prole. E in questo senso la pandemia ha fatto da acceleratore del fenomeno.

Da ciò deriva, per chi svolge questa professione, una serie di conseguenze, soltanto in parte positive. Aumenta certamente il lavoro per i veterinari che si occupano di animali da affezione; ma quel lavoro vede dilatare il carico di stress perché adesso i proprietari dei pet sono sempre più coinvolti affettivamente, sempre più esigenti, sempre più convinti di essere in possesso di informazioni tecniche («Un effetto sciagurato del Dottor Google», come argutamente ci è stato detto da una veterinaria veneta nel corso dell’intervista) e con pretese di pagare le prestazioni con tariffario da Servizio Sanitario Nazionale. A ciò vanno aggiunti i costi molti alti da sostenere per dotare gli ambulatori veterinari di macchinari necessari a compiere esami sempre più sofisticati. Tirando le somme, all’aumento delle possibilità di lavoro nel segmento dei pet non corrispondono adeguati livelli di profitto, mentre vi è certezza di un carico crescente di stress.

Stalle a rischio

Ma al di là di queste controindicazioni, ben note a chi pratica la professione indipendentemente dal profilo, il segmento degli animali da affezione continua a essere straordinariamente attrattivo. Con la conseguenza di drenare laureate e laureati e di impoverire tutti gli altri segmenti. Fra questi, il segmento degli animali da reddito è già in sofferenza conclamata, con prospettiva che la situazione vada in peggioramento. Le interviste condotte con i professionisti che operano negli allevamenti e nelle aziende zootecniche testimoniano sentimenti di pessimismo e disillusione.

Un tempo la figura del veterinario socialmente percepita era proprio quella “campagnola”: il medico degli animali che girava per stalle e interveniva sugli animali da produzione. Si tratta di un passato nemmeno così remoto, dato che gli intervistati più in età, fra quelli che hanno accettato di partecipare alla ricerca, riferiscono di avere in mente proprio questa immagine della professione (“Il veterinario dell’Amaro Montenegro” ricorre a ripetizione) quando sognavano di intraprenderla.

Adesso quell’immagine è scomparsa, ma rischia di sparire anche lo specifico profilo da medico veterinario. Anche in questo segmento il rapporto con la clientela è profondamente cambiato. Le nuove generazioni di imprenditori agricoli mostrano un atteggiamento molto meno riverente e molto più pragmatico. Il carico di lavoro aumenta, il numero di professionisti scarseggia. Un veterinario da grandi animali che abbiamo intervistato ci ha testimoniato di essere rimasto da solo a coprire una zona geografica molto vasta del sud Italia.

Non ha più agenda né orari, va dove riesce. Ciò che si prospetta è una condizione di sempre più grave carenza di infrastrutturazione dei servizi per il sistema dell’allevamento e della zootecnia. Ci sarebbe da fare un lavoro in profondità sul piano della comunicazione e dell’orientamento verso la professione, tanto più che in questo segmento le opportunità di lavoro sarebbero enormi. Ma rimangono inoptate. Col rischio che lo siano a lungo.


La pubblicazione di questo articolo è stata realizzata da ricercatore con contratto di ricerca cofinanziato dall’Unione Europea – PON Ricerca e Innovazione 2014-2020 ai sensi dell’art. 24, comma 3, lett. A), della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 e s.m.i. e del D.M. 10 agosto 2021 n. 1062.

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