Di Ignazio Verde e Sergio Saia
SETA – Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura
ROMA – In diversi dibattiti sul miglioramento genetico delle specie vegetali e in particolare sulle tecniche del genome editing si scatena spesso la solita accesa diatriba del “naturale vs. artificiale”, di sovente applicata alle tecniche di miglioramento genetico usate negli ultimi 80 anni e “accusate” di avere un approccio “riduzionista”.
Per riduzionismo si intende l’analisi di un problema variando un fattore alla volta e mantenendo costanti tutte le altre condizioni a contorno. In tal modo, è possibile attribuire i cambiamenti di un effetto (es. la resa di una coltura o un carattere qualitativo) al cambiamento del fattore stesso (ad esempio la scelta del genotipo o la quantità di nutriente disponibile). Ovviamente lo stesso approccio si usa per studiare l’interazione tra due o più fattori, permettendo in tal caso di esplorare la complessità di un fenomeno.
In contrapposizione al riduzionismo viene spesso avanzato il cosiddetto approccio “organicista” o “sistemico”, nel quali molti fattori vengono fatti mutare contemporaneamente e i due o più sistemi, diversi per molti aspetti, vengono confrontati. In tal caso non è possibile attribuire il cambiamento né a un singolo fattore, né a un suo funzionamento interattivo con altri fattori, ma solamente a un cambio del sistema nel complesso. I fautori degli approcci sistemici usano spesso il termine “riduzionismo” con accezione negativa e lo fanno non senza un uso improprio delle parole. I due metodi hanno comunque una dignità, ma il metodo “organicista” non porterebbe a nessuna conclusione concreta, né avanzamento delle conoscenze, in assenza del metodo riduzionista, che invece ha una sua autonomia, come vedremo a breve.
Gli “organicisti”, in riferimento al miglioramento genetico, esaltano spesso la selezione massale, una tecnica vecchia di millenni con cui l’uomo sceglieva nei campi le piante migliori per la nuova generazione. De facto, la selezione massale che oggi applichiamo ha connotati ben particolari che la distinguono da quanto gli agricoltori hanno fatto per millenni.
In particolare, i contadini praticavano “l’ammannato” o “mannello” (un termine che indicava la selezione di un gruppo con la mano, la pratica comunque assumeva vari nomi in funzione del contesto). In pratica, forti dell’osservazione che i figli, entro un certo grado, assomigliano ai genitori, selezionavano nell’aia prima della trebbiatura le spighe ritenute migliori e ne destinavano la produzione all’uso di seme per l’annata successiva, ipotizzando infondatamente che quel seme avrebbe prodotto piante migliori.
Tuttavia, le spighe ritenute migliori derivavano spesso da piante cresciute in una parte del campo con migliori condizioni ambientali (più acqua o meno ristagni o migliori condizioni nutritive, terreno più idoneo). Raramente originavano da mutazioni positive che avrebbero potuto essere selezionate. Il progresso genetico era minimo. Sicuramente tale pratica riduceva la propagazione dei patogeni e parassiti, dal momento che spesso le spighe selezionate non avevano evidenti attacchi, ma non si aveva un grande progresso e soprattutto i cambiamenti non erano in alcun modo prevedibili. E in effetti, come vedremo fra poco, tale tecnica non ha portato a un aumento delle rese.
I fautori di questa metodica al tempo attuale ipotizzano spesso una sorta di virtù taumaturgica della selezione massale, percepita come buona, giusta e pulita, perché, sostengono, imita in un certo qual senso la selezione naturale. Darwin stesso non ha mai nascosto di aver preso ad esempio la selezione artificiale operata dall’uomo per enunciare la sua teoria dell’evoluzione. Tuttavia la selezione massale non imita affatto i processi naturali.
In effetti la selezione massale è nata con l’agricoltura e spesso veniva praticata inconsapevolmente. Fin dalla nascita dell’agricoltura l’uomo agricoltore ha sempre selezionato in maniera empirica le piante ritenute migliori per la generazione successiva, sebbene non avesse un riscontro del fatto che fossero realmente migliori. L’ammannato altro non era che una selezione massale incontrollata (a differenza della pratica attuale). In questo modo alcune mutazioni spontanee positive per l’uomo venivano selezionate, ma inconsapevolmente venivano selezionate anche mutazioni negative (per l’uomo). La pratica dell’ammannato inoltre aveva uno scarso utilizzo (casuale) di un altro fattore potente che muove la selezione, la ricombinazione. Ovviamente la tecnica della selezione massale è tuttora praticabile, ma a differenza di quanto praticato in passato, la si accosta a rilievi sperimentali ben precisi e ad analisi statistiche sulle piante in campo e sulla loro produzione da cui si preleva l’ammannato e sulle piante e produzione che da questo si originano. Tale metodo, ben più preciso dell’ammannato classico, non è mai praticato, nemmeno tutt’ora, dagli agricoltori.
Ma per avere un riscontro dell’efficienza della pratica dell’ammannato (e della selezione massale quando a questo assimilata), presentiamo un’analisi storica di questi ultimi 2 millenni di ammannato e produzione. Ovviamente, nella presente analisi non si esclude l’incertezza di alcuni riferimenti storici e i dati presentati sono, volutamente, sovrastimati perlomeno per l’età antica, il medioevo e l’età moderna, durante i quali i report erano rari, mentre sono affidabili per l’età contemporanea dal momento che in questa età esistevano già unità di misura affidabili e statistiche nazionali.
Partiamo dall’epoca romana, periodo in cui abbiamo qualche dato storico, e rimaniamo sulle specie importanti per l’alimentazione umana, i cereali e in particolare i cereali autunno vernini (come il frumento o l’orzo). Nel periodo romano le rese medie non superavano la tonnellata per ettaro (si ricorda per i non addetti ai lavori che una tonnellata corrisponde a 1000 kg e un ettaro corrisponde a 10000 metri quadrati). Columella e Varrone indicano rese tra 405 e 1080 kg/ha (probabilmente in riferimento al farro). I romani cadono e subentra il Medioevo, le rese sono sempre di circa 1 t/ha. Arriviamo al Rinascimento, praticando sempre l’ammannato (ossia la versione non scientifica della selezione massale) “come dio comanda in maniera organicistica”, ossia senza avere alcun riscontro dei fattori che influenzano la resa. Tale approccio organicista potrebbe essere chiamato “whole genome” con un termine moderno, ma le rese non si schiodano, rimangono sempre intorno a 1 t/ha. In aggiunta, oltre a queste rese basse abbiamo qualche altro fattore di disturbo. Le avversità climatiche e biotiche (ruggini, carboni etc.) causano sia un’ampia instabilità produttiva, sia fastidiose (e drammatiche) carestie ricorrenti. Ovviamente la variabilità temporale lungo diversi secoli risentiva anche di condizioni locali e ambientali, ma nel complesso, era alquanto raro avere rese superiori a 1 t/ha.
Arrivano Galileo e Newton, il metodo scientifico viene formalizzato, e con esse anche gli studi agronomici cominciano ad affinarsi, tra cui quelli sulle rotazioni che sostituiscono il vecchio maggese, ma le rese, purtroppo, rimangono costanti, sempre intorno a 1 t/ha. Eppure le rotazioni, di fatto conosciute già agli albori dell’epoca romana, hanno un ruolo determinante nell’influenzare la produttività agricola, perlomeno nei sistemi contemporanei. Sorvoliamo, al momento, sulle ragioni per cui in tali epoche non erano invece altrettanto efficienti, riservandoci di trattarlo in altra sede. Arriviamo a “ieri l’altro”, ossia nella seconda metà del XIX secolo già quindi in epoca contemporanea: Gregor Mendel scopre come alcuni caratteri vengono trasmessi da una generazione alle successive e Darwin enuncia la sua teoria sull’origine delle specie per selezione naturale (che, ricordiamo, si fonda sia sulle mutazioni casuali, sia sulla selezione cumulativa delle stesse). La stessa selezione massale aiuta Darwin a enunciare la sua Teoria ma le rese dei cereali stanno ancora lì, 1000 kg (ossia 1 tonnellata) per ettaro. Si noti che già da Galileo e Newton a Mendel e Darwin la struttura dell’attuale indagine scientifica comincia a prendere forma, ma indubbiamente la diffusione di quelle scoperte e la relativa applicazione pratica erano alquanto modeste. Ad ogni modo, l’età contemporanea è costellata dai progressi, irrefutabili, della scienza moderna. Gli stessi progressi che hanno portato a debellare terribili malattie, ad assicurare molti più alimenti per una popolazione addirittura in crescita e ad aumentare la qualità e lunghezza media della vita. Non ce ne vogliano gli appassionati dell’antico, ma gli estensori della presente sconsigliano vivamente di desiderare la vita antica: si moriva spesso giovani, con malattie che adesso consideriamo banali o per fame, si lavorava manualmente tutto il giorno e i lavori erano fortemente usuranti.
Nel panorama agronomico e della genetica vegetale arriva, nella seconda metà del XIX secolo, un riduzionista per eccellenza, tale Nazareno Strampelli. Strampelli, a differenza degli agricoltori dei millenni (e si, millenni!) precedenti, comincia a studiare alcuni fattori genetici che determinano la resa. Non si limita a osservare in campo le colture, ma fa sperimentazioni ben controllate: coltiva diversi genotipi in prove in piccola scala, in modo da ridurre gli errori legati alla variabilità della fertilità del suolo o del microclima, colleziona dati, li aggrega, fa eventuali calcoli e analisi statistiche (perlomeno quelle a lui note) e ricava informazioni non ottenibili dalla normale selezione con ammannato e nemmeno con la semplice selezione massale (che pur ben conosceva).
Strampelli nota quindi che la resa dei cereali è bassa per alcuni fattori di origine ambientale (principalmente la cosiddetta “stretta”, ossia l’incapacità di riempire la cariosside in momenti caldo-secchi, e l’allettamento, ossia la tendenza delle piante ad abbattersi sotto il peso della spiga e a seguito della sollecitazione del vento, in tal modo frenando la produzione) e biologica (i patogeni). Vi è una buona varietà, ottima dal punto di vista qualitativo, il Rieti, ottenuta e mantenuta per rigorosa selezione massale dai popoli italici. Ma ha delle carenze. Ha una buona resistenza alle ruggini (patogeni) ma in annate piovose alletta rovinosamente e in annate molto siccitose e calde va incontro alla stretta. Le leggi di Mendel erano appena state riscoperte e Strampelli, da bravo riduzionista, pensa: dobbiamo dotare il Rieti di fattori che limitino queste sue carenze. Mica possiamo modificare l’ambiente! Non possiamo assicurare ogni culmo a un tutore per non farlo allettare (come è invece fattibile in alcune colture arboree o ortive) e non possiamo irrigare il grano nelle annate siccitose per prevenire la stretta (in quanto il costo dell’irrigazione non giustifica l’investimento, sempre che l’acqua sia disponibile), decide quindi di esplorare la variabilità genetica della specie e cercare di selezionare i caratteri che consentano di superare i predetti problemi.
Strampelli da bravo riduzionista ha quindi la “folle” (per il tempo) idea di osservare il germoplasma, individuare quei genotipi che portano i caratteri che possono aiutare a contrastare quei difetti, incrociarli con genotipi di proprio interesse e controllarne le generali filiali. In particolare, Strampelli ha anche confrontato gli stessi genotipi in ambienti con diversa disponibilità idrica naturale (ossia entità e distribuzione della pioggia e delle temperature) e identificato nella la precocità di maturazione e nella taglia (bassa) due importanti caratteri responsabili della resa. I genotipi più precoci riempiono la cariosside prima dell’arrivo del forte caldo, riducendo gli effetti della stretta; le piante con il culmo (beh, è il “fusto” dei cereali, ma non è un vero fusto) più basso tendono ad allettare di meno. Peraltro le piante più basse producono meno paglia e quindi possono destinare più risorse alla spiga. E infine, i geni che “abbassano” l’altezza, aumentano indirettamente la fertilità della spiga.
Strampelli ha quindi identificato con approccio riduzionista due caratteri principali che determinano la resa. Ovviamente non sono gli unici, ma questi sono molto molto importanti e vengono debitamente considerati anche al giorno d’oggi nella fase di breeding. A questo punto, sulla scorta del risultato ottenuto, cerca di applicarlo in condizioni reali. Strampelli sapeva incrociare i frumenti, ma si rese conto che non opportunamente i suoi frumenti avevano i geni (beh, tecnicamente gli alleli) di suo interesse. Quindi incrocia il purissimo e italianissimo Rieti con grani provenienti dalle più disparate parti del mondo, addirittura con un grano giapponese, l’Akakomugi. Orrore, il suo approccio riduzionista (solo 3 caratteri, dal momento che controllava anche l’infezione da patogeni) rischia di inquinare l’italianissimo Rieti, peraltro con un frumento straniero. Strampelli è al giorno d’oggi famoso anche per un altro genotipo, il Cappelli (anche noto come Senatore Cappelli) che è, ironia della sorte, una selezione per linea pura da una varietà nord africana. Indubbiamente ironico, dal momento che lo stesso Strampelli ha vissuto durante il regime fascista.
Nonostante le critiche che gli piovono da tutto il mondo accademico le rese dei cereali “magicamente” (beh, non magicamente, ma “scientificamente”) cominciano a salire, da 1 t/ha in pochi anni passiamo a 1.5 t/ha. Un aumento notevole, soprattutto per le tecniche agronomiche di quel tempo. Ciò significa che se per produrre una tonnellata di frumento prima serviva un ettaro di terreno, con Strampelli ne bastano due terzi. Magari qualcuno sottovaluta l’importanza di ridurre la superficie coltivata. Risparmiando superficie è possibile mantenere i boschi, che mantengono la biodiversità naturale. Ogni coltivazione, invece, riduce drasticamente la biodiversità. Quindi più resa, meno superficie coltiva e meno superficie coltivata, più biodiversità.
Ai tempi di Strampelli, inoltre, i covoni di frumento si trasportavano manualmente o con animali da soma e siamo pronti a scommettere che chiunque tra i lettori avrebbe preferito una distanza del 33% inferiore già dopo due soli giorni di lavoro, sotto il sole cocente, senza “bibite energetiche” e aria condizionata.
I grani di Strampelli ci nutriranno durante il periodo buio della guerra. Perfino il premio Nobel per la Pace Norman Borlaug, premiato negli anni ‘70 perché ha messo a punto diverse varietà di frumento utilizzando la stessa strategia di Strampelli, già diversi decenni prima di lui, ha ammesso il contributo notevole di Strampelli, del quale ha perfino utilizzato le varietà come base per le proprie.
Potremmo continuare con altri cattivissimi riduzionisti come Fisher e i caratteri quantitativi, gli schemi di selezione ricorrente che in meno di un secolo hanno portato un altro cereale, il mais, dalla solita tonnellata per ettaro a superare abbondantemente le 10 t/ha (attuale media italiana) e con punte oltre le 20 t/ha, senza pur dimenticare i progressi della ricerca scientifica sensu latu, della ricerca agronomica e il contributo imprescindibile della ricerca chimico-farmaceutica, in primis il contributo di Haber e Bosch nel processo di sintesi dell’ammoniaca, un importante concime.
Ma tornando al frumento e sulla scia della ricerca in genetica, arriviamo al già menzionato riduzionista (e anche più odiato dagli organicisti), Norman Borlaug, che proseguendo il lavoro di Strampelli portò il frumento a soglie vicino ai 10 t/ha consentendo a intere popolazioni di sconfiggere una fame atavica e da importatori di cereali diventare esportatori, con ovvie ripercussioni positive sia sull’economia, sia sull’ambiente.
Sempre sotto la “cattiva” (perdonerete l’ironia) stella del riduzionismo arriva la tecnica del DNA ricombinante (gli odiati OGM!) che consente oggi a milioni di diabetici di poter controllare la malattia. Indubbiamente la grande disponibilità di cibo donatoci dall’odiato approccio riduzionista fa aumentare l’incidenza di alcune malattie, chiamate appunto malattie del benessere. Ma questo è il solito problema del martello evidenziato da Norberto Bobbio. Se ti fai male col martello non lo devi buttare via, devi imparare a usarlo. L’ingegneria genetica poteva e può tuttora aiutarci a risolvere alcuni problemi in agricoltura (e non solo, visto che senza ingegneria genetica non avremmo gli attuali vaccini contro il SARS-CoV2) ma noi italiani, ormai con la pancia piena, siamo diventati organicisti, aborriamo i riduzionisti e l’abbiamo buttata a mare, de facto proibendola in agricoltura. Per inciso, la tecnica non è proibita in Italia, ma le sue applicazioni sì e anche le prove in pieno campo. Nel frattempo è anche arrivata la genomica, i genomi sequenziati, milioni e milioni di marcatori molecolari (bandierine segnaletiche sul genoma) che ci possono permettere di avvicinarci a un approccio sistemico: quello che in gergo i riduzionisti per eccellenza, i genetisti, chiamano Genomic Selection. Per arrivare all’ultimo nato, CRISPR, l’apoteosi del riduzionismo e quindi, per i denigratori, cattivo. Beh, ovviamente i denigratori lo considerano cattivo ma tala tecnica potrebbe consentire di risolvere molti problemi in maniera mirata e precisa. E anche la tecnica in uso del DNA ricombinante (in sintesi, gli OGM) ha già consentito di aumentare le rese, risparmiare superficie, aumentare il profitto e ridurre l’applicazione di composti in agricoltura, in particolare i composti di sintesi, con conseguenti rischi ad essi connessi. Va notato che tali benefici sono stati accertati anche nei paesi poveri.
Nulla di tutto ciò viene favorito in Italia e in sede di dibattito pubblico, diversi disinformatori si prodigano per evitare che alla popolazione venga ben spiegato il vantaggio di tali tecniche che si associa a nessun rischio concreto, come evidenziato da diversi decenni di sperimentazione all’estero e più che chiaro dall’analisi della letteratura scientifica.
Va inoltre sottolineato che i prodotti ottenuti con tali tecniche, e in particolare gli OGM, vengono largamente importanti e consumati in Italia già da 30 anni a questa parte, dal momento che ne vietiamo la coltivazione ma non il consumo. Non è mai stata fornita, a scala governativa, una giustificazione scientificamente accettabile del divieto di coltivazione.
IN SINTESI
1) la scienza, per progredire nella conoscenza, ha sempre utilizzato un approccio riduzionista. Si formula un’ipotesi su uno o più fattori, si analizzano uno alla volta e se ne studio il funzionamento, progredendo a piccoli (ma isolati) passi, che in un secondo momento vengono integrati tra di loro. Se una data ipotesi non funziona (ossia non ha un riscontro positivo davanti ai dati), <<la butto a mare>> e torno al punto di partenza. Questa è l’essenza del metodo scientifico. Elaboro una teoria, sulla base di questa faccio delle previsioni e poi chiedo alla “natura” con un esperimento se la mia teoria è corretta. Per farlo devo isolare uno o pochi fattori altrimenti è complicato interpretare la risposta della “natura”, proprio perché raramente i fattori hanno un comportamento costante al variare degli altri fattori. Con il progredire delle conoscenze posso avvicinarmi sempre più a un approccio sistemico senza mai raggiungerlo;
2) questa diatriba del “riduzionismo vs. organicismo” si basa sulla fallacia naturalistica. L’idea che la Natura lasciata a sé stessa possa fornirci le risposte. La Natura è un concetto astratto, creato dall’uomo. E quindi la Natura se ne infischia delle nostre esigenze, di cibo, di farmaci o altro. La selezione naturale e la sua parente prossima, la selezione massale, possono con i dovuti tempi biblici dare una risposta (esempio selezionare mutazioni che conferiscono resistenze a un nuovo parassita), ma non è una risposta alle nostre esigenze. Tali tempi, in ogni caso, richiedono una forte pressione selettiva che non opportunamente operiamo in agricoltura. In particolare in natura (e si noti l’assenza della maiuscola), le piante non ideone a riprodursi semplicemente muoiono prima di farlo. Quelle meno idonee si riproducono di meno. In agricoltura si evita in ogni modo che la specie coltivata muoia, perché perderemmo il prodotto desiderato. E quindi viene meno larga parte della pressione selettiva che agisce con la vera selezione naturale.
La selezione naturale è una risposta alle condizioni della comunità in cui la pianta vive. Le piante coltivate sono fuori dal contesto naturale. Un grano coltivato, sia esso “moderno” o “antico” (nella corrente accezione organicista) abbandonato a sé stesso scomparirebbe in una sola generazione.